Storie ambientate nell'universo di Star Wars, tra Episodio III ed Episodio IV.

"Le Cronache dell'Oscurantismo" era il titolo di un progetto creato trent'anni fa dal club Cloud City e poi promosso dal fanclub italiano Yavin4, a cui partecipai anni fa. Il progetto, nonostante una partenza incoraggiante, non è mai decollato.
Mi sono presa la libertà di continuare a pubblicare le mie fanfictions ambientate all'interno di questo universo.


Ves

Il Cancelliere Palpatine si è appena autoproclamato Imperatore, ponendo fine alla Repubblica e precipitando i senatori nel caos.
Regina Graiff è una senatrice della Repubblica membro della Delegazione dei Duemila con Bail Organa e Mon Mothma.
Ves, figlia di Regina, è una donna allo sbando in rotta con la madre.
Un terribile dolore le farà ritrovare.


Prequel

Ves frequenta l'università di Coruscant ed è piena di fiducia nel futuro.
Regina, sua madre, è una senatrice della Repubblica, che pone il bene della Galassia prima di ogni cosa. Membro della Delegazione dei Duemila, con Bail Organa e Mon Mothma.
Ambientato 25 anni prima della battaglia di Yavin e sei anni prima dell'Attacco al Tempio Jedi.


Oltre Coruscant

Goran era un piccolo apprendista al Tempio Jedi durante l'esecuzione dell'Ordine 66.
Ves, sua madre, è una donna distrutta dal dolore, alla ricerca del suo posto nella Galassia.
Regina Graiff, la madre di Ves, è una senatrice dell'Impero che, insieme a Bail Organa e Mon Mothma, cerca di opporsi all'autoproclamato Imperatore Palpatine.


Benvenuti

Sono fan di Star Wars da quando avevo 11 anni, quando vidi l'intera saga in televisione. L'avevo già vista prima di allora, ma ero piccola e non ci capivo molto, tranne che avrei voluto pilotare uno X-Wing.
Questo sito è dove il mio amore per Star Wars e la passione per le fanfictions si incontrano: troverete le avventure di Solaves Graiff, personaggio inventato da me, ambientate nella Galassia di Star Wars, con qualche comparsata da parte di personaggi noti presi dai film, dalle serie tv e dai videogiochi.
Non essendo un'esperta di Expanded Universe, mi perdonerete qualche imprecisione qui e là.

Buona lettura!


Sito realizzato e mantenuto da Helenia Biondani

Cronache dell'Oscurantismo • Ves

Il topo stava facendo un lavoro accurato e rapido, prima che altri suoi simili, o altri carnivori più grossi, sentissero l'odore del sangue e accorressero a banchettare.
Era audace: l'età e l'esperienza gli avevano insegnato ad arrivare per primo, arraffare in fretta tutto quello che poteva e fuggire al primo segnale di pericolo. I suoi sensi erano parzialmente rivolti al vicolo, pronti a percepire qualsiasi cambiamento, qualsiasi intrusione. Ma prestava anche un’attenzione speciale alla sua vittima: capiva che era ormai in fin di vita, incapace di reagire o difendersi, quel tanto che bastava per renderla una preda appetibile e indifesa. Ma era ancora viva, quindi non del tutto inerme.
Aveva vinto la resistenza offerta dal guanto e ora stava spolpando l'anulare roseo e curato, sicuramente la mano di una donna. Avvertito un segnale d'allarme, si rizzò sulle zampe posteriori, gli occhietti neri fissi sulla preda davanti a lui, naso e baffi in frenetico movimento, il sangue che gli colava dalla bocca e dai denti aguzzi.
Un fremito nella mano che stava mutilando fu inequivocabile: il banchetto era finito quando si era appena che agli antipasti. Altri topi, che già stavano accorrendo verso il corpo, squittirono nervosi e si dileguarono nel vicolo umido e buio, tornando da dove erano venuti.
La mano fu sul topo, spietata come una mannaia; il roditore, voltatosi per darsi alla fuga, fu raggiunto di taglio sulla spina dorsale, che si spezzò in uno schianto raccapricciante. Rimase lì, gli occhi fissi sull'ammasso di vestiti e sporcizia arrotolato tra i rifiuti, aspettando che il suo aggressore si avventasse su di lui. Morì in un paio di spasmi, forse inutili tentativi di rialzare il corpicino spezzato, squittendo di terrore e dignità ferita. Il vicolo fece echeggiare i suoi lamenti strozzati, un monito per gli altri topi a non avvicinarsi.
Da sotto un groviglio scuro si manifestò una lama di denti bianchi, un sorriso traverso, gelido e tutt’altro che allegro.


Di sbandati e disperati il dottor Lindbergh ne aveva visti tanti: la guerra appena finita e la crisi politica ancora in corso lasciavano dietro di loro solo gli avanzi della civiltà che avevano tentato di preservare e servire e in molti, troppi angoli della Galassia ormai scene come quella erano all’ordine del giorno. Quindi all’inizio non aveva prestato grande attenzione alla nuova paziente che le squadre di recupero avevano trovato nell’area industriale del pianeta, né aveva avuto il tempo di visitarla e accertare la sua identità. Se mai ne avesse avuta ancora una.
Quando arrivò il suo turno, la ragazza era ancora svenuta. Sospettava fosse ubriaca, ne aveva tutta l’aria.
«Tossicologico?» chiese mentre scrutava il monitor.
«Negativo, dottore.» rispose il droide medico dietro di lui.
«I parametri sono nella norma, sebbene molto bassi: niente alcool, niente droghe, niente sostanze illecite. Sembra che l’abbiano semplicemente picchiata fino a farla svenire.»
Una pausa.
«Segni di violenza?»
«Nessuno. La donna è integra. Non ci sono gravidanze in corso.»
Le scostò i corti capelli neri dal viso, rivelando un viso bello e regolare, ma deturpato da numerose tumefazioni e abrasioni. Fissò le palpebre chiuse: “Ha sicuramente dei bellissimi occhi verdi” pensò.
«Contusioni sul volto, fatte a mano nuda, sembrerebbe.» Lindbergh girò intorno al letto per osservare la mano ferita. La prese nelle sue, delicatamente. Il dito mutilato era stato fasciato con cura. Tornò ad osservare il monitor.
«Il dito anulare della mano destra è stato mutilato, sembrerebbe da denti di piccolo roditore.»
«Accanto alla donna è stato trovato il cadavere di un ratto, dottore.»
Ripose il braccio, quindi tornò ai piedi del letto, pensieroso.
«Direi che questa ferita le è stata fatta dopo l’aggressione, quando era svenuta nel vicolo.»
Il droide seguiva e registrava ogni parola.
«Due costole fratturate, contusioni su braccia e gambe. Una profonda ferita nella coscia sinistra, causata da laser.» finì di leggere quanto riportato sul monitor.
Si fermò e la osservò a lungo. Gli era difficile darle un’età, così indifesa e inerme tra lenzuola bianche sembrava una bambina, ma lo scanner digitale diceva che aveva ventinove anni. L’identità era però illeggibile, cosa che era possibile solo per diplomatici o militari. Rimase pensieroso per qualche secondo, indeciso se annotare un ultimo particolare nella memoria del droide. Alla fine non disse nulla, ma ordinò che le venissero eseguiti altri esami.


Coruscant al tramonto: velivoli che disegnano traiettorie a trama fitta muovendosi in ogni direzione, un’immensa e multiforme foresta di palazzi che riverberano i colori dell’imbrunire, l’atmosfera infiammata dai raggi del sole morente, un orizzonte reso irregolare e indistinguibile dal profilo di edifici e dai fumi multicolori dell’industria. Di fronte alla bellezza e al fascino di questa vista riesce difficile rimanere indifferenti. Inevitabilmente i pensieri viaggiano, seguendo le traiettorie degli speeder o le eleganti e svettanti linee degli edifici che si allungano verso il cielo, come in uno spasmodico, estremo, desiderio di infinito.
Regina Graiff pensava che quell’infinito fosse ora più che mai lontano. Passeggiava nervosamente nel suo salotto, sfiorando distrattamente lo schienale del divano, nel gioco di luce e ombra delle vetrate e delle colonne. Lo sguardo inquieto scivolava dalla città, alle mani, al pavimento.
Solo un’ora prima il Cancelliere Supremo si era autoproclamato Imperatore Galattico, tra l’esultanza di un Senato ormai anestetizzato. Lo aveva appoggiato, aveva accolto con sollievo la sua candidatura e successiva elezione. Aveva persino visto di buon occhio la decisione di entrare in guerra, convinta forse più dall’impiego dei Cloni che dalla reale necessità di un conflitto armato. Ma ora doveva ammettere che la giovane Mon Mothma aveva ragione, nonostante la sua irruenza e arroganza, aveva visto nel cuore nero di quell’uomo senza scrupoli, sempre che di cuore si trattasse. Aveva in realtà iniziato a dubitare di lui alle prime voci di un suo presunto disaccordo con il Consiglio Jedi, da sempre l’ago della bilancia di ogni questione importante nella Galassia.
Chissà chi lo aveva ridotto in quelle condizioni? Sotto quei lineamenti sfigurati non si poteva non riconoscere lo statista, ma la senatrice leggeva in quelle cicatrici preoccupanti presagi: solchi profondi e oscuri, come se la corruzione del fisico nascondesse ben più profonde e indicibili corruzioni dello spirito. Non poteva fare a meno di pensarci, soprattutto dopo aver guardato dentro a quei famelici occhi gialli, febbricitanti di potere. Un corpo corroso e deformato dall’avidità.
Un fischio metallico segnalò la presenza di qualcuno alla porta.
Riemerse dai suoi pensieri, sottraendosi con violenza dal ricordo di quello sguardo inquietante. C-3D1, il droide protocollare al suo servizio, andò ad accogliere gli ospiti.
Bail Organa, Mon Mothma e Gal Abner entrarono furtivamente, guardinghi. Con la porta chiusa alle loro spalle, rimasero in piedi per qualche secondo, silenziosi. Organa guardava Regina con uno sguardo che era un misto di apprensione e consapevolezza: da tempo sospettava che Palpatine stesse tramando il colpo di stato. Mothma e Abner tenevano gli occhi fermi sul senatore, aspettandosi che fosse lui il primo a parlare.
Regina Graiff si abbandonò sul divano in un sospiro, il gomito sul bracciolo, la mano alla fronte.
Fu il droide, immobile davanti alla porta, a rompere il silenzio.
«Madame, desiderate qualcosa?» disse, rivolto alla propria padrona.
«No, grazie 3D1. Non credo che potremmo mandare giù nulla, nemmeno se volessimo.» rispose dopo aver posato lo sguardo sui colleghi.
Il droide si scrollò e in un rumoreggiare di ingranaggi uscì dalla stanza.
I tre senatori si allontanarono dall’ingresso, avvicinandosi alla donna che aveva di nuovo il viso tra le mani. Finalmente rivolse loro lo sguardo.
«Ebbene …» cominciò, esitante.
«Imperatore!» fu l’unica parola che uscì dalla bocca di Mon, un’esclamazione di trionfo e beffa insieme, come trattenuta a lungo e in attesa solo di scoppiare.
«Mi chiedo cos’altro abbia in mente, ora.» commentò Abner, il più anziano dei quattro.
«Come, Bail? Come puoi aver previsto questo?» chiese Regina.
«I Jedi, i loro sospetti su di lui. E quando ho visto cosa i Cloni hanno fatto al tempio, ho capito.» disse, in un sospiro. Sembrava spiaciuto della sua lungimiranza.
«Dobbiamo capire se il Senato può ancora avere potere e voce in capitolo in questo Impero.» si affrettò ad aggiungere Abner.
Una parola faceva più paura di tante altre, una parola che nessuno aveva il coraggio di pronunciare. O quasi nessuno.
«Tirannia, vorrai dire.» lo corresse Mon.» E’ evidente che a Palpatine poco importa del destino della Galassia e dei suoi cittadini. Dobbiamo tenere insieme il Senato, impedirgli di scioglierlo.»
«Non lo farà.» proruppe Abner «sarebbe pazzia!».
«Non sono sicura che Palpatine la pensi nello stesso modo, anzi, probabilmente è convinto di riuscire a tenere insieme la Galassia comunque, magari con la forza dell’esercito. Abbiamo sentito tutti il racconto di Bail e di cosa è successo al Tempio Jedi.»
«Regime militare.» sospirò Bail, sempre più incline ad ascoltare che a parlare.
«Cloni a ogni angolo di strada, Squadroni armati di guardia ai palazzi governativi, …» iniziò Mon.
«… e chissà cos’altro.» concluse Regina.
«Non posso pensare di invecchiare in un tale … abominio dopo aver governato questa Galassia nella pace e nella concordia. Questa non è democrazia.»
«Mio caro Gal, credo che siamo ormai lontani da quella democrazia che abbiamo studiato a scuola.» terminò Regina.
«Ho sempre ritenuto Palpatine un senatore accorto, giusto, assennato. Ma ora non so …»
«Ha ingannato tutti.» concluse Bail.
Ci fu un attimo di pausa, durante il quale i quattro si guardarono l’un l’altra. Da quanto andavano avanti le macchinazioni di Palpatine? Poteva essere possibile che queste fossero le sue intenzioni fin dall’inizio? Stentavano a crederlo, o forse non volevano. L’assedio di Naboo da parte della Federazione del Commercio, la crisi diplomatica con i Separatisti, , gli anni di conflitto che hanno squassato la Galassia da ogni parte … No, nessuna mente poteva essere tanto malata e avida da provocare una tale crisi.
«Non posso e non voglio sapere quanti fili abbia tirato e quante trame abbia tessuto Palpatine in questi anni. Non credo serva più, ormai. Quello che dobbiamo fare e capire chi è rimasto a contrastarlo, apertamente o nell’ombra. Dobbiamo capire chi è nostro alleato.»
«Stai proponendo un’alleanza segreta, Bail?» domandò Regina, cauta.
«Questo governo non rispecchia più il popolo, ma il volere di una singola persona. Prima ho parlato di tirannia e non a caso. Palpatine va destituito!» concluse Mon.
«Credo che il popolo ne abbia avuto abbastanza di battaglie e morte, la via diplomatica è l’unica strada! La maniere forti non hanno portato a nulla, lo abbiamo visto in questi anni .» Abner si guardava intorno, implorando appoggio dagli altri colleghi.
«La gente è stanca di combattere. E poi c’è troppa confusione: Separatisti, Impero, Esercito, Senato … a chi si rivolgerà il popolo?» lo soccorse Regina.
«Dov’è la senatrice Amidala?» chiese infine, quando nessuno sembrava volerle rispondere.
«Ho cercato di informarla della riunione, ma stranamente non sono riuscito a mettermi in contatto con lei. Non l’ho più vista da dopo l’udienza in Senato.» rispose Bail, soprappensiero.
«Dobbiamo credere che non sia più dalla nostra parte?» chiese Abner, sempre più preoccupato.
«Non Amidala, sicuramente.» sentenziò Organa, chiudendo il discorso.
«Comunque non è qui.» concluse Mon Mothma, «dovremo proseguire senza di lei.»
«Allora è deciso. E’ questo che stiamo facendo.» Regina lasciò la frase in sospeso senza avere la possibilità di concluderla. Di nuovo ospiti alla porta.
Il quartetto di senatori si irrigidì all’unisono.
3D1 andò alla porta, un breve scambio di battute, quindi si precipitò verso il soggiorno, trafelato, per quanto un droide possa esserlo.
«Madame, sua figlia …» poteva un droide rimanere senza fiato? Regina lo dubitava. Ciononostante il droide non finì la frase. Dietro di lui venivano alcuni agenti di sicurezza.
Regina si sentì mancare, malgrado fosse schizzata in piedi al vederli. « Cos’è successo a mia figlia?»


Quando aprì gli occhi stentò a riconoscere quel luogo: l’ora era insolita, la visuale pure. Ma conosceva quel profumo.
«Mamma …»
«Solaves, sei sveglia?» era lì accanto, nella penombra. Si girò verso la voce.
«Dove sono? -
«Nel mio appartamento, a Coruscant. Ti hanno trovato in un ospedale periferico della città.» lasciò la frase in sospeso, non sapendo come proseguire. Era combattuta tra il chiederle cosa fosse successo o semplicemente come stava, ma alla fine rinunciò a entrambe le richieste: la prima non avrebbe ricevuto risposta, la seconda aveva una risposta scontata.
Ves tentò di alzarsi a sedere, ma appena provò a sorreggersi sulle mani, la destra mutilata lanciò fendenti di dolore su per il braccio, la spalla, fino al cervello.
«Lascia, ti aiuto io.» disse Regina, affrettandosi a sorreggere la figlia.
Ves avvertì della concitazione in corridoio e si irrigidì all’istante.
«Cosa succede?» chiese, visibilmente spaventata.
Regina cercò di non dare troppo peso alla sua reazione, ma non poté fare a meno di chiedersi ancora una volta chi aveva ridotto la figlia in quel modo e perché era finita svenuta in un vicolo. Si morse la lingua, sforzandosi, cercando di darle un po’ di respiro.
«Palpatine si è proclamato Imperatore Galattico e come potrai immaginare c’è un po’ di confusione al momento …» rispose vagamente.
«Tutti a decidere da che parte stare, eh?» commentò Ves, cinica.
Si assicurò che la figlia potesse reggersi da sola, si alzò e andò a disattivare gli oscuranti della vetrata lasciando entrare il sole. Quindi si girò verso la figlia, un’espressione grave sul volto.
«Il momento è delicato. Bisogna prendere delle decisioni importanti dalle quali dipenderà il nostro futuro e quello della Galassia intera. In effetti si, dobbiamo decidere da che parte stare. Molti lo hanno fatto da tempo.» Se stava parlando di se stessa, non lo diede a intendere.
Ves rimase in silenzio: non per riguardo o rispetto, semplicemente sapeva che era sconsigliato sfidare la madre su terreni minati come quello politico. Ora più che mai, la situazione era delicata. Come sempre, le sorti della Galassia erano la priorità della senatrice Graiff.
Regina si avvicinò al letto, le mani giunte in grembo.
«Cosa ci facevi in quel vicolo? Chi ti ha ridotto così?»
«Non ricordo nulla.» mentì Ves.
«Mi scuserai se non ti credo.»
«Ti prego, lasciami in pace.» disse Ves distogliendo lo sguardo.
Regina sospirò, si sedette sul letto accanto alla figlia, cercando di riguadagnare la sua attenzione.
«Non lasciare che lo scopra da sola. Perché lo scoprirò, e tu lo sai. Se sei tu a dirmelo sarebbe meno penoso per entrambe.»
Ves non si girò e non rispose.
Di nuovo Regina si alzò, tornò alla vetrata e iniziò a parlare guardando fuori, senza rivolgersi alla figlia. Il tono dimesso, come se le parole potessero ferire meno se dette a bassa voce. A Ves sembrò strano, in genere era lei quella che distoglieva lo sguardo.
«C’è una cosa che devi sapere. sono stata dubbiosa fino all’ultimo se dirtelo o meno, ma è giusto che tu sappia.»
Un campanello d’allarme suonò nella mente e nel cuore di Ves.
«I Jedi sono stati accusati di alto tradimento nei confronti dell’Imperatore. Subito dopo la proclamazione dell’Impero ogni cavaliere, maestro o padawan rintracciati e intercettati vengono condannati all’immediata eliminazione.»
«Goran …» iniziò Ves, ma la voce le morì in gola.
«I Cloni hanno attaccato il Tempio e sterminato chiunque fosse al suo interno.»
Ves iniziò a guardarsi intorno, smarrita, quasi cercando una via d’uscita. L’istinto era quello di correre fuori, andare al Tempio, vedere, sapere.
Gli occhi dilatati, il viso pallido, le cicatrici profonde e scure. Sembrava invecchiata di 10 anni.
Scostò il copriletto, farfugliando che doveva andare, doveva salvarlo. Regina si avvicinò a lei, la prese per le spalle, cercando di quietarla. Ves la fissò implorante negli occhi, lacrime già le solcavano il viso.
«Quando?» chiese in un sussurro.
«Due giorni fa.» rispose Regina con voce rotta. Non sapeva cos’altro dire, le sembrava che ogni parola detta aprisse nuove ferite su cicatrici non ancora del tutto rimarginate.
«Dov’è?» domandò infine con un soffio.
«In ospedale. Oggi lo porteranno nella cappella funeraria dove celebreremo un rito privato.»
Ves a quel punto finalmente chiuse gli occhi e si abbandonò a un pianto dirotto, il viso nascosto nel seno della madre. Regina le accarezzava la nuca scossa dai singhiozzi, posandole delicati baci sui capelli ora puliti.
«Il mio bambino! Il mio piccolo Goran!» gemeva Ves, aggrappandosi disperatamente alla madre.
L’ingresso di 3D1 le sorprese a piangere una tra le braccia dell’altra.
«Madame, inizia la riunione.»


«Mi duole annunciarvi che la senatrice Amidala è morta.»
Bail Organa era visibilmente turbato: più di ogni altro senatore aveva lavorato spalla a spalla con Padmè fin da prima della Guerra, insieme avevano caldeggiato la soluzione diplomatica, avevano lottato per un dialogo con i Separatisti. La sua voce si era levata più volte all’interno del Senato Galattico, forte e coraggiosa, continuamente perseguendo quegli ideali di democrazia e giustizia che l’avevano resa famosa in tutta la Galassia.
La sua gravidanza aveva avuto del misterioso, nessuno sapeva chi era il padre e come mai, nonostante il suo palese stato, non si fosse ritirata dalla vita pubblica fino all’ultimo. Non aveva mai lasciato trapelare nulla sulla sua vita privata, di questo Bail si rammaricava. Pensava che avrebbe potuto darle una mano, come collega e come amico. Ma Amidala pensava a tutti tranne che a se stessa, e più di ogni altra cosa cercava la pace.
Più volte era stato tentato di chiederle notizie sul padre, sul perché non fosse accanto a lei. Non voleva credere alle chiacchiere secondo cui un misterioso Cavaliere Jedi frequentasse i suoi alloggi, voleva solo sapere se stava bene e se era felice.
Più di ogni altra cosa si rammaricava di non aver chiesto maggiori spiegazioni a Obi-Wan. Sapeva che il Maestro Jedi era amico intimo di Amidala, avendola appoggiata e affiancata più volte in passato. Avevano combattuto fianco a fianco su Naboo e Geonosis e chissà in quante altre battaglie.
Ma né Obi-Wan né Yoda avevano fatto commenti o lasciato trapelare una anche minima informazione su chi fosse il padre della sua bambina e cosa era successo.
Crescere la figlia di Amidala era forse l’ultimo gesto da amico che poteva permettersi, non potendo più fare altro per lei. Si augurava solo di riuscire a crescerla come lei avrebbe fatto, appassionata e coraggiosa.
«Chi può aver …» iniziò un senatore.
«Le cause della morte sembrerebbero naturali, probabilmente complicazioni dovute … al suo stato.» concluse Bail.
Ci fu silenzio per secondi infiniti. Il cordoglio era grande, trovare qualcosa di adatto da dire risultava difficile.
Abner si alzò, girandosi per poter vedere tutti in faccia.
«Amidala portava avanti le sue idee senza curarsi del giudizio altrui, senza paura delle conseguenze: era votata alla giustizia, alla democrazia più di qualunque altro senatore. La sua integrità morale era un esempio e un monito per tutti noi.»
Tutti i presenti annuirono, unanimemente concordi.
Abner continuò: «Aveva un sogno, una visione di questa Repubblica come avrebbe dovuto essere. Quella visione è anche la nostra, sicuramente lontana dall’Impero Galattico che Palpatine ci ha costretti ad accettare.»
Un brusio nervoso iniziò a serpeggiare fra i presenti. Forse molti non si aspettavano una tale presa di posizione. Iniziò a essere chiaro che bisognava palesare le proprie intenzioni e forse c’era chi non ne era entusiasta.
In mezzo alla concitazione della sala, Regina non fece caso alla figlia che scendeva le scale e si dirigeva verso l’ingresso, uscendo senza aver lasciato detto dove andava.


Il professor Equus era nel suo studio. Ves passeggiava nervosamente nel corridoio ovest, la luce rossastra del sole le infiammava il viso teso, lo sguardo pensieroso perso tra i rami delle piante nel chiostro, mentre altri studenti ritardatari, si affrettavano a raggiungere le aule di lezione, evitandola a comando.
Non sapeva proprio come il docente avrebbe potuto reagire alla notizia. Lei stessa non ne aveva ancora parlato con nessuno, men che meno con sua madre. Non le era facile rivolgersi a lui per aiuto, sconvolgergli la vita in quel modo, ma ancora più difficile sarebbe stato cercare aiuto e comprensione nella senatrice. Sicuramente avrebbe gridato “Allo scandalo!” per poi mandarla in esilio in qualche monastero sperduto su un pianeta dell’orlo esterno, dove non avrebbe potuto recar danno all’immagine della retta senatrice e dove nessuno l’avrebbe riconosciuta. Il fatto che fosse uguale a sua madre come una goccia d’acqua era sempre fonte di imbarazzo per entrambe.
Tornò verso la porta mentre l’interfono fischiava di nuovo.
«Ves, entra pure.»
Entrò, nonostante avesse i piedi incollati al pavimento.
Noora era seduto alla sua scrivania, il volto illuminato dal monitor, mentre la vetrata dietro di lui disegnava il contorno del capo e delle spalle, facendolo sembrare più piccolo di quello che era.
Ancora Ves ebbe un tuffo al cuore: solo quella mattina lo stesso sole li aveva svegliati, insieme nell’appartamento di lui, dove lei non avrebbe dovuto essere. Forse nessuno sapeva. Ma ora …
Si maledì per quello che stava per fare: scioccamente si riteneva totalmente responsabile, e solo lei, per quello che era successo. Non era nei suoi piani, e sicuramente nemmeno in quelli dell’uomo.
Rimase lì, davanti alla soglia, lontano dai raggi del sole, i contorni del viso appena percettibili nella penombra della stanza, fuori dall’arco di luce disegnato dalla alta vetrata.
Il loro primo incontro non era stato tanto diverso: si era presentata in quello stesso ufficio, un anno prima, fresca matricola alla ricerca di un relatore per la sua tesi di fine semestre.
Aveva seguito le lezioni del prof. Equus fin dall’inizio ed era rimasta folgorata dal suo carisma e dalla sua intelligenza. Credeva che non avrebbe potuto scegliere un docente migliore per la propria tesi d’esordio, e dopotutto “Psicologia dei Contrasti” era una materia appassionante. La lista, d’altro canto, era lunga: molti erano gli studenti che avevano fatto richiesta di avere il professor Equus come relatore e sapeva che avrebbe dovuto fare qualcosa di straordinario per distinguersi nella folla. Beh, in quanto a questo, lo scopo era stato largamente centrato.
Equus alzò lo sguardo, incuriosito dall’esitazione della sua studentessa. «Ves, cosa volevi dirmi?» All’interno delle mura accademiche tornavano a essere professore e studentessa e le dolci parole sussurrate nella penombra di fugaci incontri clandestini erano solo un ricordo da conservare come pietre preziose e rare.
Ora doveva dirglielo, ma quali parole erano le più adatte per iniziare il discorso? Iniziare era sempre così difficile!
Si accarezzò il ventre ancora piatto con la mano, tentando di assorbire forza e calore da quello che stava crescendo dentro di lei, quella piccola creatura che ancora non aveva iniziato a prendere forma umana.
Noora notò il movimento, quasi trascurabile. Si alzò in piedi, le mani appoggiate alla scrivania, dimenticò qualsiasi cosa aveva assorbito la sua attenzione fino a poco prima. La sua espressione era grave e seria. Ves trattenne il respiro mentre l’uomo camminava verso di lei a passo deciso, la prendeva per le spalle, chinando il volto sul suo, solenne.
«Non avrei voluto che accadesse così …» iniziò a balbettare, sentendosi improvvisamente piccola e indifesa.
L’uomo la guardò con un misto di affetto, sorpresa e confusione, una serie di emozioni che le era difficile decifrare, non avendole mai lette sul suo viso contemporaneamente. E ancora si chiedeva se poteva ritenersi al sicuro.
Lui le accarezzava i capelli e la fronte, le guance, il collo. Non diceva una parola, sembrava non averne più.
«Sei arrabbiato?» chiese Ves in un soffio di voce.
«No. E tu? Sei spaventata?»
«Un po’» ammise la ragazza.
Lui l’abbracciò, stringendosela forte al petto. Ves si abbandonò totalmente a quell’abbraccio, per nulla preoccupata che qualcuno potesse entrare e sorprenderli in quell’atteggiamento.


Di nuovo in quel corridoio, Ves si sentiva ancora più nervosa e indifesa di quanto lo era stata 6 anni prima. Questa volta non c’era il sole a scaldare mura e vetrate, ancora fermo nell’altra parte del cielo. Le piante nel chiostro erano cresciute, alcune erano stato potate, altre erano state aggiunte. Il neonato Impero Galattico non aveva ancora iniziato a estendere i suoi luridi tentacoli su quella parte della città, da sempre dominio degli studenti. Lì si erano formate le principali menti politiche e militari della Repubblica, ciononostante Palpatine non aveva ancora dato il via alla riforma dell’istruzione che avrebbe sfornato menti ciclostile, proprio quel genere di soldati e senatori che servivano al suo Impero per prosperare in eterno. Si chiese se Noora era destinato a soccombere a questo nuovo schema delle cose.
Non aveva ancora annunciato la sua presenza, si avvicinava nervosa alla porta dello studio, per ritrarsi tra le colonne del chiostro appena avvertiva l’arrivo di qualcuno.
La porta si aprì in un sibilo che la sorprese di spalle, mentre si allontanava per l’ennesima volta indecisa. Il professor Equus ne uscì, impercettibilmente invecchiato, qualche capello bianco in più sulle tempie, una ruga più profonda sulla fronte e sul mento. La pelle scura, come era sempre stata, occhio neri e profondi, affondati in un animo limpido e trasparente, dove avrebbe voluto abitare per sempre.
Vide ancora sorpresa e confusione nel suo sguardo, l’affetto di anni prima era stemperato e scolorito, come uno splendido affresco sbiadito dal sole e dalle intemperie. Così tanto e così a lungo erano rimasti esposti i loro cuori feriti, si erano inariditi come palme nel deserto, affondando le radici sempre più in profondità, dove fuggire il calore per ripararsi dalla morte voleva dire sopravvivere nel gelo di una terra fredda e nera.
E ora doveva lei scavare per far riemergere quelle radici profonde, ricordi dolorosi da riportare a galla, per ucciderli di nuovo impietosamente.
«Ves? Tu qui?» chiese, addolcendo lo sguardo.
«Noora, ti devo dire una cosa importante.» nonostante gli anni passati, parlare era ancora difficile.
«Entra nel mio studio, ho un po’ di tempo.»
L’etichetta imponeva che si scambiassero due battute informali, magari sulla salute o sui parenti. Ma i tempi erano infausti e l’occasione della sua visita lo era ancora di più.
«Lavori anche oggi?» chiese Ves, mentre Equus chiudeva la porta.
L’uomo sorrise, capiva l’allusione, e annuì.
«Si, nonostante tutto. Almeno finché questa parte dell’Universo non cadrà sotto lo sguardo di Palpatine.» una risatina sommessa. Ves rimase grave.
Noora turbato sembrava accorgersi di lei in quel momento. Lei, dal canto suo, si rese conto in quel momento, dolorosamente, che non lo aveva più visto sorridere da tanto tempo.
«Scusami, non volevo …»
«No, Noora, scusami tu. Purtroppo non sono venuta qui per fare due chiacchiere …» Gli occhi le si riempirono di lacrime, ma ancora resisteva, impassibile.
«E’ successo qualcosa a Goran?»
Avrebbe voluto essere capace di mantenere il sangue freddo, all’accademia militare le era stato insegnato a dominare le emozioni. E poi aveva già pianto tanto. Ma in quel momento, mentre lo diceva al padre di suo figlio, capì che non avrebbe più rivisto il volto del suo bambino. E pianse.
Potevano due persone separate dal dolore per la perdita di un figlio, riunirsi nel medesimo dolore anni dopo? Forse.
Ma non era per essere consolata che era venuta lì e l’ultima cosa che voleva era essere amata. Perché avrebbe dovuto proteggerlo, salvarlo, sottrarlo dalle mani dei Jedi che lo reclamavano come uno di loro. Portarlo lontano, dove la Forza non lo avrebbe trovato. Dove avrebbe potuto essere un figlio. E dove lei avrebbe potuto essere una madre. E forse parte di questi orrori sarebbero stati risparmiati. In realtà voleva solo essere punita.


Regina si avvolse in uno scialle scuro che la faceva sembrare ancora più alta e magra; se lo legò in vita con una lunga cintura di seta blu. I capelli raccolti dietro la nuca, trattenuti da due aghi di legno come era tradizione. 3D1, accanto a lei, le reggeva la stola. L’appartamento era deserto e silenzioso, immerso nella penombra delle luci notturne che filtravano dalle vetrate oscurate. La donna sembrava pallida e vecchia, mostruosa nel suo dolore. Gli angoli della bocca curvi verso il basso, gli occhi rivolti al pavimento, come scivolati lì dove nessuno li aveva più raccolti.
Tese le braccia, lasciando che il droide le coprisse le spalle con la stola, che ricadde subito lungo la schiena fino ai gomiti. I piedi nascosti sotto la lunga gonna nera si mossero impercettibilmente mentre Regina si volse all’ingresso, pronta per uscire. Senza bisogno di dire una parola, il droide la precedette alla porta, la aprì e la guardò allontanarsi nel corridoio verso gli ascensori.
Rimase solo nell’appartamento, i suoi cigolii riecheggiavano in ogni angolo, in ogni piega scura. La sua corazza argentata rifletté brevemente il lampo di uno speeder che attraversava il cielo in quell’istante. Quindi scomparve nella porta che dava sulla cucina.


«Non posso credere che tu appoggi Mon Mothma in questa assurdità!» Nonostante Abner si stesse trattenendo, la sua voce risultò urlata nel silenzio dell’abitacolo.
«Smettila Gal, o ti faccio scendere alla prossima piattaforma!» sibilò Regina, frenando a stento la collera.
Abner mosse lo sguardo colpevole sugli altri occupanti l’aviotaxi. Quando i suoi occhi si posarono su Ves, il viso rivolto ai palazzi, sentì una morsa allo stomaco e si zittì all’istante.
Nessuno disse più nulla finché il velivolo non atterrò presso la cappella di famiglia.


Era stata allestita una catasta di legno e paglia intrisi di un olio profumato. Ai quattro angoli aste reggevano torce accese che rimanevano fisse nella atmosfera immobile della cripta. Un lungo tappeto scuro era stato steso davanti all’ingresso e conduceva fino alla pira. Ves con dolore bruciante alzò lo sguardo sul giaciglio allestito tra i rami secchi. Fu sollevata di non comprendere immediatamente le forme che gli stavano davanti. La luce calda, ma incerta delle torce rendeva poco visibile quello che la circondava. Velocemente abbassò lo sguardo, affogandolo nelle lacrime che ancora le riempivano gli occhi e le guance. Non faceva alcun rumore. Piangeva in silenzio con il capo abbassato, il velo nero le copriva il viso da sguardi indiscreti. E finalmente si sentiva al sicuro. Finché il suo dolore fosse rimasto muto.
Comprese poco della cerimonia, comunque semplice e breve. Ora che gli occhi si erano abituati alla luce del fuoco, vedeva la tenera e fragile sagoma del suo bambino adagiata in quel giaciglio di sterpaglie e rami secchi, avvolto in una toga Jedi che lo faceva sembrare più grande. Gli occhi chiusi, come se dormisse, le tenere, piccole dita rosee intrecciate sul petto inerte. La treccia di padawan stesa mollemente sulla spalla destra. Durante la cerimonia, prima che il suo corpicino venisse coperto con il telo rituale, le fu concesso di avvicinarsi per l’ultimo saluto. Ves tremava da capo a piedi e non respinse sua madre che si offrì di sorreggerla. Posò un bacio sulla fronte e sulle labbra del suo bambino, gli sfiorò le guance e i corti capelli scuri con le dita, desiderando con tutta se stessa che quegli occhi, gli stessi del padre, si aprissero su di lei per chiamarla mamma. Quando capì che questo non sarebbe mai avvenuto, Ves soffocò un singhiozzo nel seno della madre e si lasciò trascinare via.


Non fu più nulla per molti giorni. Dimenticò quanti, perse se stessa e il trascorrere del tempo. E a quanti chiedevano come stava, Regina non rispondeva, ma scuoteva il capo, abbassava lo sguardo, domandandosi quando tutto questo avrebbe potuto avere una fine.


Torna alla home

Cronache dell'Oscurantismo • Prequel

Mancavano ancora dieci minuti all’inizio della lezione. Ves scorreva i suoi scarni appunti, controllando di avere tutto il materiale necessario.
Non conosceva nessuno degli altri studenti, ma la cosa la metteva a suo agio: non era tenuta a chiacchierare con nessuno e nessuno l’avrebbe disturbata. L’aula non era affollata, gruppetti di ragazzi qua e là chiacchieravano tranquilli, qualcuno leggeva.
Quando riportò l’attenzione alla scrivania, si accorse che il docente stava già prendendo posto. Non sembrava avere fretta di iniziare, si mise a scorrere il monitor sotto le sue mani.
Ves accese quello nel suo banco e controllò il nome: Professor Noora Equus.
Ridacchiò tra sé: che nome curioso!
Diede un’occhiata alla biografia: nato su Alderaan, aveva frequentato la Scuola di Xenolinguistica, per poi venire su Coruscant e specializzarsi in Robotica. La sua tesi di ricerca “Dignità ed Evoluzione della Cultura Androide” aveva fatto scalpore nel mondo accademico e attirato l’attenzione dei media per un po’. Proprio per questo, aveva avuto i suoi guai con la legge, convinto sostenitore dei diritti dei droidi, aveva partecipato e organizzato parecchie manifestazioni dentro e fuori il Campus.
«Un tipo ribelle!» mormorò Ves tra sé sorridendo.
A guardarlo sembrava un uomo ordinario: indossava giacca e pantaloni grigi, la divisa non ufficiale di tutti i docenti, capelli scuri, corti e ben pettinati, il viso e le mani illuminati da una lieve abbronzatura.
«Signori: prendete posto, per cortesia.»
Fece una pausa, dando il tempo agli studenti ti sedersi e sistemarsi.
«Vi do il benvenuto al mio corso di studi. È bello vedere che siete ancora in tanti a voler imparare le lingue minori della Galassia.»
Prese un piccolo olocom dalla scrivania e fece due passi.
«Domandatevi perché studiare le lingue minori. Tutto sommato, il Galattico Standard viene parlato ovunque valga la pena andare. E sicuramente non basterà una vita intera per visitare tutti i settori della Galassia e parlare davvero tutte queste lingue. E allora, perché? Perché le studiamo?»
Pausa.
«Non c’è una risposta giusta o sbagliata. Mi interessa davvero sapere perché siete qui.»
«Perché mi manca un esame per finire l’anno!» esclamò una voce di ragazzo dietro di lei.
Non si disturbò nemmeno a girarsi, ma alcuni ridacchiarono.
Il professore sorrise, annuendo.
«Certo, c’è anche questa necessità, no?»
«Io sono qui perché voglio entrare in Accademia. Conoscere le lingue è importante per la mia futura carriera.» rispose una ragazza.
«Nessuno è qui per conoscere il professore ribelle? Mi sento quasi offeso.» esclamò Equus, fingendosi scandalizzato.
A ridacchiare furono solo le ragazze, questa volta. Anche Ves sorrise.
«Sentite. Vi riporto cosa mi rispose un ragazzo, un paio d’anni fa. Questo ragazzo era molto sveglio e si rivelò il migliore studente che io abbia mai avuto. Almeno finora.»
Si portò davanti alla scrivania.
«Mi rispose: “Perché il futuro è sempre in movimento. Quelli che oggi sono i nostri nemici, un giorno potrebbero essere i nostri alleati. E quelli che ora sono nostri amici, domani saranno i nostri oppositori più agguerriti.” Secondo voi cosa voleva dire?»
Ci fu un brusio nell’aula, ma nessuno osò rispondere.
Si spostò ancora, portandosi ai bordi della pedana. Premette un pulsante sull’olocom: una voce bianca, una donna o forse un bambino, iniziò a cantare in una lingua sconosciuta, un brano delicato e struggente.
Quando fu finito, durò pochi secondi, il professore riprese a parlare.
«Questa è una ninna nanna yalariana.»
«E dove si trova? » chiese il ragazzo che aveva parlato prima.
«Yalara? È il sistema più remoto dell’intera Galassia. Vi chiederete perché questa ninna nanna sia così importante. Vedete, si sa poco di questo pianeta, è selvaggio, privo di materie prime rilevanti, è un mondo freddo e buio, la loro stella si sta spegnendo. La popolazione è scarsa e quei pochi che nascono, lasciano il sistema per raggiungere altri pianeti vicini dove poter avere un futuro. Ci sono stato, diversi anni fa, insieme a un gruppetto di archeologi e geologi: ho studiato la loro cultura e parlato con la loro gente. Quasi tutti vecchi. Ma erano felici di avere degli stranieri, nessuno visitava il loro pianeta e pensavano che la Repubblica si fosse dimenticata di loro.»
«Ci siete rimasti molto?»
«Un anno galattico standard. Io ho raccolto quanto più materiale linguistico e storico potessi. I miei colleghi hanno recuperato manufatti antichi, resti di animali estinti da secoli. Quando siamo partiti è stato molto emozionante. Alcuni dei giovani sono venuti con noi, volevano raggiungere Naboo, Alderaan, Coruscant, volevano studiare.»
Ci fu un brusio. Ves si girò verso un paio di colleghe. Una delle due, intuendo la sua perplessità, si chinò verso di lei.
«Lo studente di cui parlava prima è yalariano.»
«Questa ninna nanna nasceva come canto di resistenza. Yalara era, millenni fa, uno dei più importanti centri della Vecchia Repubblica. Ma quando i Sith si staccarono dall’Ordine Jedi, Yalara divenne un territorio conteso tra le diverse fazioni Sith. Quando i Sith scomparvero, venne abbandonato a se stesso. Ci vollero diverse decine di anni perché Yalara tornasse a far parte della Repubblica, ma ormai era un mondo in rovina e rimase fuori dalle rotte commerciali.»
Ci fu un pesante silenzio. Il professore riavviò l’audio e tornò a sedersi alla scrivania.
«Abbiamo il dovere di ricordare le Culture Estinte, tenerle vive e studiarle, continuare a parlare le loro lingue. E se dovessimo smettere di parlare, allora potremo cantare.»


«Professor Equus! Professore!»
Regina scoccò a Ves uno sguardo di rimprovero, vedendo la figlia agitarsi in maniera scomposta sul sedile.
«Ves, smettila, rischi di cadere di sotto.»
La ragazza, che non sembrava prestare la minima attenzione alle raccomandazioni della madre, saltò fuori dall'aviotaxi e atterrò sulla banchina dello spazioporto.
«Ci vediamo a palazzo più tardi!» gridò senza voltarsi.
Regina si sporse appena, per vedere dove la figlia fosse diretta con tanta fretta. La vide trottare affannata verso un uomo distinto e di bell'aspetto appena sceso da uno shuttle. Si salutarono. Aveva un'aria familiare, ma non riuscendo a ricordare dove lo avesse già visto, scrollò le spalle e si risistemò sul sedile, facendo cenno al tassista di partire.


«Ves, che piacere vederla! Come mai su Alderaan?»
«Si ricorda di me, professore. Ne sono lusingata.»
«Come potrei dimenticare una delle mie studentesse più brillanti!»
Ves si sentì arrossire e distolse lo sguardo.
«Allora! Cosa la porta sul mio pianeta?» continuò il professore.
«Accompagno mia madre: è stata invitata al compleanno della regina.»
«Già, è questa settimana, vero? La regina organizza sempre un evento benefico in occasione del suo compleanno. Ma quest'anno non mi sono informato. Avevo altre faccende di cui occuparmi.»
«Quindi non è qui per partecipare alla cena?»
Il professore sorrise, vagamente imbarazzato.
«No, non conosco personalmente i reali di Alderaan.»
Ves moriva dalla curiosità di sapere come mai il professore fosse tornato a casa nel mezzo dell'anno accademico, ma si trattenne dal fare altre domande.
«Le spiace? Devo prenotare un taxi.»
«Oh, mi scusi, non volevo farle perdere tempo!»
«No, si figuri, la compagnia mi fa piacere. Anzi, volevo chiederle se voleva accompagnarmi.»
Ves avvertì lo stomaco fare una capriola. Non sapendo cosa dire, si limitò ad annuire.
Non disse una parola mentre Equus si avvicinava alla cabina e parlava con il droide al suo interno.
«Bene, il mio taxi sarà qui a minuti. C'è un gran viavai in questi giorni, spero di non dover aspettare troppo. È sicura di avere tempo? Non vorrei farle fare tardi.»
Ves scosse il capo e finalmente trovò la voce.
«Non si preoccupi, la cena è domani. Piuttosto, spero di non essere io a disturbarla.»
«Le ho già detto che la compagnia mi fa piacere.» rispose il professore, sorridendo dolcemente.
Ves spaziò lo sguardo sul traffico di persone e bagagli dello spazioporto, interessata a qualsiasi cosa che non fosse quel sorriso.
«È la prima volta che viene su Alderaan?»
«Si. È un pianeta splendido. Lo osservavo dall'oblò dello shuttle mentre scendevamo e sono rimasta senza fiato! Per molti versi mi ricorda molto Chandrila, il mio pianeta natale.»
«Ah! Certo! Il pianeta più bello di tutta la Repubblica.» disse Equus, ma sembrava parlare più a se stesso che con lei.
«Non è d'accordo?» chiese Ves.
L'uomo la guardò, sorpreso dalla domanda.
«Come potrei, non l'ho mai visitato!»
«Mi sta prendendo in giro? Mi sta dicendo che il mio pianeta non è bello come il suo?»
L'uomo alzò le mani, ampliando il sorriso.
«Lungi da me! Non la prenderei mai in giro, è troppo intelligente.»
Ves lo studiò, strizzando gli occhi.
«Adesso sì che mi sta prendendo in giro!»
Equus rise. A Ves parve il suono più bello che avesse mai sentito.
Il taxi arrivò e Noora diede istruzioni al tassista di portarli al Tribunale.
Ves si irrigidì sul sedile. L'uomo parve accorgersene, perché si affrettò a chiarire.
«Non si preoccupi, non è nulla di preoccupante: devo incontrare l'esecutore testamentario di mio padre.»
Ves non osò fare altre domande.
Il viaggio fu silenzioso e Ves era a disagio. Bella compagnia che stava facendo!
Si contorceva le mani in grembo, incapace di trovare un solo argomento di conversazione.
Infine, decise di essere sincera.
«Mi scusi, professore, so che mi aveva chiesto di farle compagnia.»
Equus si girò a guardarla.
«No, mi scusi lei, forse non dovevo coinvolgerla: questa non è proprio una visita di piacere, per me.»
Rimasero in silenzio per qualche istante. L'uomo riportò l'attenzione fuori dalla cabina, sulla città che scorreva sotto e accanto a loro. Quando riprese a parlare sembrava distante.
«Non volevo stare solo.»
Ves, non sapendo cos'altro fare, gli strinse la mano, debolmente. L'uomo abbassò lo sguardo senza dire nulla, le accarezzò il mignolo con il pollice. Ves sentì una scossa partirle dalle dita fin dietro la nuca. Non si mosse e non disse altro per il resto del tragitto.


Il professore sembrava decisamente più sereno e leggero una volta concluso l'appuntamento con il notaio.
«Le va di pranzare con me? Sono anni che non torno a casa e sono curioso di sapere se il mio ristorante preferito è ancora aperto.»
Ves accettò entusiasta e risalirono al volo su un altro taxi.
Il locale era a diversi isolati di distanza dal Palazzo di Giustizia. Noora le si strizzò accanto, indicandole ora un monumento, ora un palazzo, ora una via e raccontandole episodi della sua infanzia o eventi storici interessanti. Ves era inebriata, contagiata dall'eccitazione dell'uomo, visibilmente felice di essere tornato nella sua città dopo tanti anni. Non sembrava più il serio e composto professore che aveva conosciuto nove mesi prima. Era sempre stata affascinata dalla sua dialettica, dalla sua intelligenza, dalla sua cultura. Ma quello che aveva davanti ora non era più il professor Equus, bensì l'uomo, Noora. E ammise che le piaceva decisamente di più.
«Ha bisogno di una mano per scendere?»
Ves si scosse, vedendo che si erano fermati e lo sportello del taxi era aperto.
«Il locale è dietro quell'angolo, venga.» disse Equus prendendola per mano e iniziando a camminare svelto.
Una voce baritonale dall'altro lato della strada tuonò sopra il rumore del traffico e della folla.
«Noora, vecchio rancor! Non hai perso il vizio di trascinarti dietro tutte le donzelle della Galassia!»
Ves si girò a vedere chi aveva urlato. Un omone vestito da militare stava attraversando la strada, incurante degli speeder che lo evitarono per un soffio e degli insulti di guidatori e passanti. Allargò le braccia e sembrò imprigionare Equus in un abbraccio in cui l'uomo sparì per un attimo.
Se abbraccia me, mi sbriciola le ossa, pensò Ves.
Gli uomini risero e si diedero pacche sulle spalle, scambiandosi convenevoli e battute che Ves non afferrò.
«Quando sei tornato? Pensavo fossi distaccato da qualche parte nell'Orlo Intermedio!»
«Licenza, vecchio mio, sono arrivato ieri.»
«Ti presento Solaves, una mia studentessa.»
«Ex studentessa.» puntualizzò Ves, infastidita dall'improvvisa formalità con cui Equus la identificò.
«Piacere, cara. Io sono Korell» disse l’uomo, allungandole una stretta di mano inaspettatamente delicata.
«Non hai perso il vizio di sedurre gli studenti, vedo.» aggiunse, rivolto a Equus.
Poi, prima che Equus potesse replicare, continuò.
«Non farti ingannare dalla sua parlantina: prima che tu te ne accorga, ti convincerà che gli androidi devono avere un'istruzione e uno stipendio e ti ritroverai in strada con lui, a brandire striscioni e fermare il traffico. Per poi farti arrestare.»
«È successo una volta e siamo rimasti in cella solo quella notte!»
«Una notte di troppo, secondo me!» ma rideva nel dirlo.
«Eh, abbiamo fatto le nostre ragazzate, lo ammetto. Che gusto c'è a essere giovani, se non si fanno delle pazzie?» replicò Noora.
Korell gli appoggiò una mano sulla spalla.
«Si, condivido. Abbiamo fatto tante cose stupide nella vita, ma adesso abbiamo delle belle storie da raccontare alle ragazze.» aggiunse, strizzando l'occhio a Ves.
Lei sapeva del suo passato di giovane professore ribelle, ovvio. Ma non aveva mai avuto occasione di parlarne con lui e saperne di più. Al campus giravano voci ed era sicura fossero molto gonfiate.
«Lei è stato suo allievo?» chiese Ves.
«Per carità, non darmi del lei, mi fai sentire vecchio. Si, quando il nostro professore insegnava qui su Alderaan, dieci anni fa. Poi non ha resistito al richiamo della capitale.»
«Però siete rimasti amici?»
I due uomini si zittirono, occhi negli occhi.
«Migliori amici.»
Il momento passò e l'omone giunse le mani insieme in un sonoro schiocco.
«Allora, stavate andando a mangiare da Wade?»
«Certo. Vuoi unirti a noi?»


«Chi è quell’uomo?»
Regina le sbucò alle spalle, mentre Ves saliva le scale.
«Mamma, mi hai spaventato? Cosa ci facevi lì, al buio?»
«Ti aspettavo. Pensavo tornassi prima. Bail e Breha volevano cenare tutti insieme.»
Ves sospirò.
«Ti avevo mandato un messaggio, non l’hai ricevuto?»
Regina si rigirò il comlink nella mano, guardandolo distrattamente.
«Si. E Bail è stato molto comprensivo, ovviamente.»
Ves scese un paio di scalini, andandole incontro.
«Scusami mamma, ma il tempo è volato. Abbiamo incontrato un amico del professor Equus e …»
«Chi?»
«Noora Equus. È stato il mio professore di xenolinguistica il semestre scorso. Ricordi? Ho preso 30.»
Regina non replicò, rigida come pietra. Ves era turbata, la reazione della madre le sembrava eccessiva.
«Mamma, tutto bene?»
«Solaves, tieni presente che qui su Alderaan le giornate sono più corte che su Coruscant. È già ora di andare a dormire. Fra poco meno di sette ore sarà giorno.»
«Accidenti!» esclamò Ves, iniziando a salire gli scalini due alla volta.
«Che c’è? Hai un appuntamento per domani mattina?»
Ves si fermò, indecisa se rivelare alla madre i suoi piani per il giorno dopo.
«Noora ha promesso di farmi fare un giro turistico della città domani.»
Regina sbuffò, ma non disse nulla. appoggiò una mano sulla balaustra e iniziò a salire anche lei le scale, mentre Ves correva in camera.


«Noora Equus.» borbottava tra sé Regina più tardi, mentre si preparava per coricarsi.
«Dove ho già sentito quel nome?»
Si spazzolava lentamente i lunghi capelli grigi, mentre ripercorreva nella mente tutti i politici e dignitari che conosceva.
«Sarà figlio o nipote di qualcuno.» rifletteva. Non aveva conoscenze nel mondo accademico di Coruscant, per cui dubitava di averlo incontrato di persona.
Ma le dava fastidio non ricordare esattamente dove aveva già sentito quel nome.
Estrasse il suo olocom e digitò il nome sul display.
Uscirono diversi risultati, Quasi tutte pubblicazioni di studi, scavi, articoli specializzati. Poi trovò un video di dieci anni prima, sembrava tratto da un notiziario, dove si vedevano un gruppo di studenti protestare davanti alla sede della Cybot Galactica su Affa, capeggiati da un giovane professore. Mentre lo guardava, una profonda espressione di disgusto le si dipinse sul viso, scavandole profonde rughe intorno alla bocca.
Finito il video, riprese un articolo dal titolo inequivocabile: “Diritti e doveri delle forme di vita non basate sul carbonio.”. L’espressione si intensificò.
Quella notte faticò ad addormentarsi.
La mattina dopo si svegliò tardi, per cui incrociò la figlia solo nel pomeriggio, quando il professore la riaccompagnò a palazzo.
Regina era in giardino, li vide entrare dal vialetto della residenza e fece cenno a entrambi di avvicinarsi. Aveva riposato e si sentiva meglio rispetto alla sera prima. Voleva dare al professore il beneficio del dubbio. Sorrise quando i due furono a portata d’orecchio.
«Buongiorno madre.» esordì Ves, una nota di prudenza nella sua voce.
«Buongiorno Solaves. Vi siete divertiti?» chiese, guardando Noora.
«Assolutamente. Aldera è una città meravigliosa. Abbiamo visto la Cattedrale: toglie il fiato!»
Si fermò, guardò Noora e poi di nuovo sua madre.
«Madre, questo è il professor Noora Equus, lavora all’università di Coruscant. Noora, questa è mia madre, Regina.»
L’uomo esibì un sorriso accattivante e allungò la mano destra.
«La senatrice Regina Graiff. È un onore incontrarla.»
«L’onore è mio professore: Ves mi racconta solo meraviglie di lei.»
Stava esagerando, lo sapeva. Ves non le aveva parlato molto del professore da quando aveva dato l’esame. E anche in quel caso, si spendeva in infiniti apprezzamenti per la materia, guardandosi bene dal nominare il suo insegnante. Ora che aveva quell’uomo davanti e poteva studiarlo meglio, studiarli insieme, capiva il perché.
Mentre chiacchieravano, sopraggiunse Bail.
«Lei deve essere il famoso professor Equus.»
Noora guardò Ves. Regina avvertì un scarico d’acido nell’esofago.
«Beh, famoso non so. Sicuramente non come voi. È un onore per me incontrarla, Viceré.»
I due uomini si strinsero la mano.
A Bail ovviamente il professore piaceva. Durante il pranzo, Regina gli aveva parlato di lui, usando solo toni elogiativi, accennando al suo trattato sui diritti dei Droidi senza lasciar trasparire il minimo giudizio. Almeno, sperava di esserci riuscita; Bail la conosceva bene.
«Stasera diamo una cena informale per il compleanno della regina e mia consorte. Ci farebbe piacere se partecipasse.»
Regina scoccò un’occhiata a Bail, ma questi continuava a sorridere al professore.
Il quale, preso alla sprovvista, iniziò a balbettare una risposta.
«Caspita! Sarebbe un onore per me. Grazie, volentieri.»
Di nuovo quel sorriso. Ves era raggiante, guardava tutti come se quell’invito fosse il sigillo di approvazione paterno sul nuovo fidanzato.
«Bene, è deciso. Solaves, cara, sei tutta sudata. Vai a riposarti e datti una sistemata.»
Spinse Ves, disorientata, lontano da Noora in direzione della reggia.
Bail si schiarì la voce.
«Bene, Noora. L’aspettiamo stasera. La cena è alle sette.»
Così dicendo, salutò il professore con un cenno del capo, non sentì la risposta.


Ves entrò in camera come una furia, mentre Regina stava dandosi un’ultima occhiata nello specchio prima di scendere.
«Cos’era quella sviolinata?»
Regina si avviò un ciuffo ribelle dietro l’orecchio.
«A cosa ti riferisci, cara?»
«Smettila di chiamarmi “cara”. Ieri sera mi hai fatto il terzo grado su Noora e oggi eri tutta sorrisi e complimenti.»
«Non era un terzo grado: ero in pensiero per te. E ora è diventato Noora? Che fine ha fatto “professore”?»
Ves si morse il labbro, guardando altrove.
«Quanti anni ha?»
«Non hai già controllato?» le chiese Ves.
«Certo. Mi chiedevo se tu lo sapessi.»
Ves sospirò.
«Quarantadue.»
«Tuo padre aveva quindici anni più di me, ed era già una bella differenza d’età.»
Si fissarono riflesse nello specchio. Regina si sistemò la spilla al centro del petto.
«Gli anni non contano.»
Almeno non fingeva che fossero solo amici.
«Forse. A seconda di quello che sei disposta a sacrificare.»
Si girò, le andò incontro.
«Spero si sia lasciato alle spalle certi estremismi.»
Anche adesso, Ves non negò.
«Sono passati dieci anni.»
«Ma non mi hai appena detto che gli anni non contano?»
E così dicendo, uscì dalla stanza. Ves la seguì dopo qualche secondo.


Ves era impaziente. La cena era stata deliziosa, aveva mangiato fino a scoppiare. Le chiacchiere erano state piacevoli. Tutti erano affascinati e curiosi circa Noora, il suo lavoro, le sue ricerche. Accanto a lui Ves si sentiva al settimo cielo. Lui ogni tanto si girava verso di lei, sorridente. Sotto il tavolo le stringeva la mano, mentre con l’altra le versava il vino. Le chiedeva se voleva altro arrosto, dell’insalata, le allungava i piatti da portata. Ves era convinta che non le servisse altro.
Finché non rimase altro da mangiare e sentiva il bisogno di alzarsi da quel tavolo e fare due passi nel parco.
Bail aveva invitato un’arpista che la regina ammirava molto e ora si erano spostati tutti sul terrazzo per ascoltare la sua esibizione.
Lei e Noora si erano tenuti in disparte, appoggiati alla balaustra, a chiacchierare.
Parlarono del compleanno della regina, dei regali, della cena.
Ricordarono la mattina insieme, i posti visitati, un paio di episodi buffi.
Noora rideva, rilassato. In un momento di silenzio, Ves prese coraggio.
«Mi spiace per tuo padre.»
«Grazie. È successo quest’estate. Ero tornato per i funerali. Pensavo di essermi lasciato alle spalle questo …»
La voce si ruppe, non riuscì a proseguire.
«Scusami, non dovevo nominarlo» si affrettò a scusarsi.
«No, non preoccuparti, anzi, mi ha fatto piacere» e così dicendo le fece una carezza sul viso, ritirando subito la mano.
Ves guardò verso il gruppo di persone dall’altro lato del terrazzo, aspettandosi di incrociare lo sguardo vigile della madre; ma erano tutti rapiti nell’ascolto dell’arpista e non facevano caso a loro. Questo le diede coraggio.
«Che ne dici se facciamo due passi nel parco?»
Noora parve sorpreso, sorrise incerto, poi il sorriso si allargò.
«Certo» rispose, porgendole il gomito.
Si avviarono lungo il sentiero che cingeva il giardino interno.
«Quando mi racconterai delle cattive decisioni che tu e Korell avete preso da giovani?»
Noora ridacchiò.
«Mi chiedevo quando me l’avresti chiesto.»
Fecero un altro paio di passi.
«Dieci anni fa ero un professore un po’ diverso da oggi. Ero giovane e idealista.»
«Sei ancora giovane!» obiettò Ves.
«Ti ringrazio, ma sappiamo entrambi che non è vero.»
Poi continuò.
«Mio padre era manager alla Cybot Galactica, lavorava ai droidi protocollari.»
«Che tipo di droidi sono? Maggiordomi?»
«Più o meno. Ma sono anche traduttori e dotati di un cervello positronico in grado di apprendere nuovi linguaggi e forme di comunicazione.»
«E da lì che è nata la tua passione per le lingue galattiche?»
«Si. Avevamo un droide in casa, un modello 3PO. Insieme studiavamo le lingue e le culture degli altri pianeti. Mio padre si preoccupava degli aggiornamenti e della manutenzione dei bachi. Passavamo serate intere noi tre a discutere, immaginare.»
Noora aveva uno sguardo sognante, perso nel ricordo come se fosse apparso davanti a lui in quel momento. Ves si sentì lacerare al pensiero di quello che l’uomo aveva perduto.
«Mi ero molto affezionato a lui. Ha vissuto con noi per vent’anni, sai? Era un prototipo, il primo di tutta la serie.»
Noora fece una pausa, sembrava indeciso.
Ves gli strinse il braccio che teneva ancora avvinghiato al suo.
Si sedettero su una panchina, l’oscurità del giardino rischiarata dalle lampade fluttuanti presenti ovunque sul terreno del palazzo.
«Quando iniziarono a produrre i 3PO in serie, mio padre avrebbe dovuto restituire il nostro all’azienda, ma non lo fece. Ovviamente lo vennero a sapere. Ci fu un’inchiesta.»
Ves appoggiò la testa sulla spalla di lui, continuando ad accarezzargli la mano.
«Vennero a casa nostra. Dicevano di non volerlo danneggiare, ma dovevano eseguire dei test, per la sua sicurezza, dicevano. Andarono avanti per ore, test del linguaggio, test comportamentali, test sociali, test di intelligenza, ovviamente, test emotivi.»
La guardò: sembrava ancora sul punto di piangere.
«Vedi, Andrew, così l’avevo chiamato, era un droide molto sensibile. Ed era anche molto intelligente. Sapeva cosa stava succedendo, ma non si ribellò mai. Desiderava superare i test, sperava che gli avrebbero permesso di rimanere con noi.»
Noora si interruppe, portandosi una mano davanti agli occhi.
«Mi spiace tanto» disse Ves in un soffio. Stava iniziando a piangere anche lei.
«Dopo quello che gli hanno fatto, che ci hanno fatto, ho iniziato a covare una profonda rabbia. Ho iniziato a informarmi, a studiare il cervello positronico, a mettere ordine tra i miei appunti e a scrivere pagine e pagine. Non sapevo cosa ne avrei fatto, ma volevo che la vita di Andrew fosse ricordata, che i suoi successi fossero celebrati. Non era solo un droide per me, capisci? Era come …»
«… un fratello.» concluse Ves.
Noora annuì.
«Ho pubblicato tutto su una rivista scientifica. Un piccolo trattato, più che un articolo. Mi sono fatto una certa nomea, diciamo così.»
Ridacchiò, un riso amaro. Si strofinò gli occhi.
«In seguito scrissi altri articoli, ma furono bloccati. Le mie idee erano un po’ troppo estreme per certi politici. Mio padre nel frattempo era andato in pensione, non aveva più l’appoggio dell’azienda.»
«Fu quando vi arrestarono?»
«Più o meno. Alcuni studenti avevano letto il mio articolo e si erano interessati anche agli altri miei scritti. La fama mi diede alla testa e ci cacciammo nei guai. Dopo quell’arresto, però, sciolsi il gruppo e non ne parlai più.»
«Tuo padre cosa pensava di queste tue idee?»
«Lui amava Andrew come un padre ama un figlio. Il resto non gli importava. Ma era orgoglioso di me e mi spronò a non buttare la mia carriera. Tornai alla mia prima passione, ovvero alle lingue. Ed eccomi qui.»
«Non pensi di tornare a occuparti dei diritti dei droidi?»
«La Repubblica non è pronta a sedersi e discutere dei diritti dei droidi. Per la maggior parte delle persone, politici compresi, sono solo attrezzi, utensili, elettrodomestici. Capisci? Per loro non possono evolvere, imparare, crescere, se non nel limite degli aggiornamenti software che vengono creati.»
Si alzò, frustrato.
«Ah, la Repubblica è sull’orlo della rovina, ormai! Mi spiace, so che tua madre è senatrice, che ci crede. Ma secondo me c’è troppa burocrazia, troppi interessi economici. Molti senatori si mescolano con le lobby del commercio, della robotica, hanno interessi in tutti i settori. Caspita, persino all’università c’è gente che blandisce i politici per favori o finanziamenti!»
Ves lo raggiunse, si appoggiarono entrambi a una fontana.
«Quindi la Repubblica crollerà presto?»
«Credo che non durerà ancora a lungo. Qualcosa accadrà e sarà come un effetto domino. Può essere che questo non abbia grandi ripercussioni sulle nostre vite, ma chi può dirlo.»
Si guardarono. Ves gli accarezzò il viso rasato. Lui chiuse gli occhi un attimo e quando li riaprì, le prese la mano e l’attirò a sé.
Fu un bacio lungo, intenso, ma molto dolce. Per quella sera non parlarono di altro.


Ves aveva trascorso la giornata studiando. No, era inesatto. Aveva trascorso la giornata leggendo, ripetendo e dimenticando tutto nel giro di dieci minuti. E quindi rileggeva lo stesso capitolo una seconda volta. E poi rinunciava e passava al successivo. a un certo punto, non ricordava l’ora, aveva iniziato a prendere appunti.
«Almeno questa giornata non sarà del tutto persa.» si disse.
Mancava una settimana all’esame e le sembrava di non riuscire a stivare altre informazioni nel suo cervello; tutto ciò che leggeva rimaneva nella sua mente per pochi minuti e poi, puff, svaniva, si scioglieva come neve al sole. Come bere vodka e avere sempre più sete.
Quando vide la luce del giorno farsi arancione, abbandonò l’ololibro sul divano e iniziò a guardasi intorno, sbuffando. Senza Noora si annoiava terribilmente. L’appartamento era minuscolo, l’aveva già esplorato in lungo e in largo qualche giorno prima, mentre Noora era all’università dove continuava a tenere le lezioni estive.
Lei si ritrovava improvvisamente con un sacco di tempo libero: aveva concluso le lezioni da un paio di settimane e le rimanevano un paio di esami prima delle vacanze.
A differenza degli altri anni, non era particolarmente eccitata all’idea di lasciare Coruscant per passare un mese su Chandrila insieme ai genitori, rivedere gli amici d’infanzia, i parenti, i mille cugini.
Ma, a differenza delle estati passate, quest’anno aveva una relazione clandestina con il professore di Xenolinguistica.
Sorrise tra sé, stringendosi un cuscino al petto.
Coruscant in estate diventava invivibile: la temperatura oscillava tra il caldo soffocante delle strade, al gelo intenso nei locali al chiuso. Coruscant non era un pianeta particolarmente umido, essendo quasi completamente privo di vegetazione naturale, ma l’aria era irrespirabile comunque a causa della polvere e del calore generato dagli impianti di areazione.
Motivo per cui la maggior parte dei diplomatici e dei membri della classe politica (che rappresentavano più della metà degli abitanti del pianeta) viaggiava solo su speeder e non era solita muoversi a piedi, tranne che nei cortili dei palazzi governativi, si intende.
L’università era in effetti un piccolo mondo a parte dentro la planetaria area urbana di Coruscant, ma il campus dove alloggiavano gli studenti era tutt’altra cosa: accozzaglia di diverse culture e diversi pianeti da cui ogni studente proveniva, odori di cibo esotico e fauna variegata, come amava ripetere la sua coinquilina, rumori, musiche, voci, accenti. Sembrava sempre che ci fosse il circo per strada. O il carnevale.
In ogni caso, da lì a due settimane il campus sarebbe stato deserto, non fosse per quegli studenti che avevano le sessioni estive d’esame, che comunque non erano molti.
Noora rimaneva per continuare la ricerca, assistere gli studenti nello studio, partecipare a riunioni del collegio insegnanti. Ma soprattutto perché non aveva più una famiglia a cui tornare su Alderaan, essendo rimasto senza genitori e non avendo nessun altro parente. Un po’ le spiaceva per lui, ma giusto un po’. In certi momenti ne invidiava la libertà e la pace, soprattutto quando si ritrovava a una delle riunioni di famiglia che sembravano più una sagra di un villaggio dove non conosceva la maggior parte delle persone e dove ogni volta c’erano nuovi bambini di cui imparare i nomi.
Il suo comlink emise un piccolo fischio, segnale che era arrivato un messaggio. Lo recuperò dalla scrivania e lo attivò. In genere non riceveva messaggi scritti, era più abituata a olomessaggi o chiamate dirette. Rimase di stucco quando lesse la frase. La rilesse un paio di volte, controllando pure il destinatario. Non c’era possibilità di fraintendere il significato, era una richiesta decisamente diretta e inequivocabile.
“Fatti trovare nuda quando torno a casa - Noora”
Ridacchiò, spegnendo il dispositivo e ritirandosi in bagno. Si, meglio farsi una doccia.


«Non ci hai messo molto!»
Ves entrò nell’ufficio della madre urlando e senza bussare. Dietro di lei, 3D1 la seguiva, trafelato, troppo lento per riuscire a fermarla. Regina lo guardava con biasimo. Il droide se lo sentì addosso e si bloccò a metà strada dalla scrivania.
Ves, invece, la raggiunse in un paio di falcate furiose, sbattendo entrambe le mani sulla superficie di legno wroshyr.
«Esci 3D1.»
Il droide si girò nervoso su se stesso e uscì sferragliando.
«Siediti, nel tuo stato non è sano agitarsi.»
«Allora non darmi motivi per agitarmi!»
Silenzio.
Regina chiuse la proiezione che aveva davanti e si alzò dalla scrivania.
Dando le spalle a Ves, rivolse lo sguardo alla città oltre la parete in vetro.
«Dimmi, come pensavi di gestire la situazione?»
Ves emise un verso stizzito e scosse la testa.
«È un bambino, puoi anche dirlo ad alta voce.»
Regina si girò in un frusciare di vesti.
«No. Non ancora. Mancano ancora 5 mesi.»
«Inoltre, è tuo nipote, che ti piaccia o no.»
Regina alzò la voce.
«Certo che è mio nipote! Proprio perché è mio nipote che ho agito come ho agito.»
«Mandando il padre all’altro capo della Galassia?!»
Rimasero zitte per qualche secondo, prendendo fiato.
«Il professor Equus ha impegni accademici che non può ignorare. Ha ricevuto la borsa di ricerca nell’università di Naboo e come … -
«Risparmiami, madre.»
Regina tornò a sedersi alla scrivania.
«C’è qualcosa in particolare che volevi discutere oppure posso continuare a lavorare?»
«Non mi interessa chi hai dovuto minacciare o blandire per farlo finire a Naboo. E non voglio scuse. Sapevi che avevamo dei progetti. Non è mandandolo chissà dove che ci metterai i bastoni tra le ruote.»
«Intendi seguirlo forse? E come credi che potrete vivere in due con il suo stipendio di ricercatore? Con un bimbo in arrivo?»
Ves si abbandonò sulla sedia, le mani a penzolare dai braccioli.
«Ho amici, risorse.»
Regina sorrise appena.
«Ti ho fissato un appuntamento al Tempio Jedi per oggi pomeriggio.»
Ves fu di nuovo rigida sulla schiena, occhi spalancati.
«Cos’hai in mente?»
«Ho chiesto al Consiglio Jedi se è possibile, visto il tuo stato, eseguire un esame del sangue per accertare la presenza di Midi-Chlorian nel feto. Hanno acconsentito.»
Ves si alzò, allontanandosi dalla scrivania.
«Non lascerò che i Jedi mi portino via mio figlio.»
Regina si sporse sulla scrivania.
«Rifletti. Sarebbe istruito, nutrito, protetto. Crescerebbe sano e forte. Sarebbe un eroe della Repubblica. Hai sempre ammirato e rispettato il loro Ordine.»
«Ammirarli è un conto, madre. Rinunciare alla cosa che amo di più al mondo è ben più di questo!», esclamò Ves, stringendosi le braccia intorno al piccolo rigonfiamento al ventre.
«Non essere melodrammatica! È solo una visita.»
«Mi rifiuto!»
Regina si prese qualche secondo di pausa, fingendo di rifletterci.
«Se accetti di fare la visita, ti lascerò andare su Naboo con il professor Equus. Ovviamente, se l'esame da esito positivo, dovrai tornare qui dopo il parto.»
Ves, che stava già uscendo dalla stanza, si fermò e tornò verso la scrivania.
«Non riesci a smettere, vero? Non ce la fai, è più forte di te. Ogni cosa è politica per te, persino la tua famiglia. Il tuo stesso sangue. La vita di un bambino che ancora non è venuto al mondo. E io che mi illudevo che, sapendo che stavi per diventare nonna, ti saresti addolcita, mi avresti trattato con rispetto, amore persino. Potremmo essere una famiglia felice, di nuovo. Eppure tu la fai così difficile.»
Rise piano, un riso amaro, rauco.
«Con Noora mi ero illusa. Avevo fantasticato, raccontandogli di come eravamo felici quando c’era papà, prima di questa assurda Guerra con la Federazione. Quando papà ci caricava a bordo della corvette per portarci a fare gite su pianeti che sembravano paradisi. Allora era tutto perfetto. Come il cielo di Chandrila: azzurro, infinito, senza una nuvola.»
Ves osservava la madre che sembrava diventata di pietra e trattenne le lacrime.
«Io e Noora volevamo essere il cielo, madre.»
Si voltò è uscì. Regina rimase in piedi per secondi infiniti, prima di sedersi in un sospiro stanco.


La divisa le stava larga. Non tanto da sembrare un sacco, ma quanto basta per sentirsela tirare nei punti sbagliati. Ves continuava a tornare davanti allo specchio, aggiustarsi la cintura, le maniche, le spalle.
«Ti ci abituerai.» le fece la donna dietro di lei.
«La divisa in sé non è brutta, è solo un po’ scomoda. Non c’è una taglia più piccola?»
«No, mi spiace, c’è solo questa.»
Ves sbuffò.
«Vabbè, potrò sempre stringerla.»
Zula la guardò in tralice.
«Vediamo come vai, poi decidiamo. Va bene, tesoro?»
Decidiamo. Come se il fatto di essere assunta dipendesse anche da lei.
«Vieni, andiamo davanti. Fra poco arrivano gli operai.»
Zula la precedette oltre la porta di servizio che portava dietro il bancone.
La tavola calda era la copia carbone di qualsiasi altra tavola calda. I menù proponeva le solite cose e le divise variavano solo per il colore e il logo sul taschino.
Si attaccò al grembiule il pad offerto da Zula e guardò fuori dalla vetrata.
Il cielo andava colorandosi, il sole stava sorgendo. Verso le sette sarebbero arrivati i primi clienti stando a quanto Zula le aveva spiegato poco prima.
Il suo pensiero andò al piccolo Goran, al suo sguardo confuso e assonnato mentre lo lasciava alla vicina.
«Grazie Norma, porta pazienza per questa settimana. Se mi prendono, vedrò di contrattare sui turni.»
La sua vicina aveva sbuffato.
«Non ci pensare, cara. Lo faccio volentieri. Questo ometto è il bambino più buono che ci sia, vero Goran?»
Goran aveva sorriso di riflesso, sentendosi nominare. Il sorriso era scomparso quando vide la madre scomparire oltre la porta di casa di Norma, lo aveva sentito piagnucolare un po’, la voce della vecchia che lo cullava e consolava.
La vetrata le restituiva la sua immagine, uno spettro dai contorni incerti proiettato sulla strada e i palazzi.
Sembrava una di quelle ballerine da musical, tutte sgambettìi e ammiccamenti, volteggianti intorno al protagonista che intona il brano principale incantando la platea. Vestita così poteva quasi sembrare una ragazza normale, magari una studentessa che faceva quel lavoro per mantenersi agli studi o una giovane mogliettina che arrotondava per dare una mano in casa.
E invece.
Voleva farcela, doveva farcela.
La vita della famigliola felice con Noora non era durata un anno, ma non voleva tornare da sua madre con la coda tra le gambe, pregarla di darle una mano. Sua madre avrebbe sicuramente ritirato in ballo il patto fatto, di lasciare Goran ai Jedi come fosse un pacco postale o un bagaglio ingombrante. Non poteva sopportare di dargliela vinta. Ma ancor di più non poteva separarsi dal suo bambino. Per il momento sarebbe bastato vestirsi da brava ragazza, col tempo lo sarebbe diventata.
Entrarono i primi avventori, due operai evidentemente colleghi. Zula le fece un cenno e Ves si avvicinò al tavolo, pad alla mano.
«Buongiorno, cosa vi porto?»
«Buongiorno. Sei nuova, tesoro?»
«Si, sostituisce Kehuy.» rispose Zula alle sue spalle.
Ves sorrise ai due clienti abituali. Questi, senza guardare il menù, le ordinarono due caffè e due toast.
Zula e lei si alternarono a prendere le ordinazioni, servire i caffè, stare alla cassa.
Nel giro di due ore il locale si riempì e si svuotò di nuovo. In un attimo di calma, Ves abbassò lo sguardo sulla divisa: neanche una macchia. Poteva essere un nuovo primato.
Zula, intenta a pulire un tavolo in fondo al locale, notò il suo movimento.
«Complimenti, hai evitato macchie e strappi come una vera professionista.»
Ves sorrise, compiaciuta.
«Vuol dire che posso portarla a casa e stringerla?»
«Sarebbe meglio, tesoro.»
Ves avviò una piega della gonna pulita anche se un po’ stropicciata, prima di riprendere a rassettare il bancone. Dopo cinque minuti aveva finito.
«Senti, porto il sacco della spazzatura sul retro e poi stacco. Accompagno mio figlio al nido e sono di ritorno.»
Zula alzò una mano.
«Fai pure senza fretta, tanto qui è calma piatta fino alle undici. Ci vediamo dopo.»


Continuavano a venire alla tavola calda. A volte in gruppetti di tre, quattro; più spesso in coppia. Ordinavano un caffè, stavano lì qualche minuto, si guardavano intorno con circospezione. Parlavano con lei e solo con lei. Poi se ne andavano. Ves aveva il magone ogni volta che li vedeva. Quello che veniva più spesso, aveva imparato, si chiamava Trotter. Era una specie di galoppino tuttofare dei fratelli Baath, lo stesso che le aveva procurato il primo, e finora unico, incarico.
Non erano maleducati o invadenti: le chiedevano come andavano gli affari, come stava il bambino, non lo chiamavano mai per nome, se aveva abbastanza soldi. Cose così. Era convinta che la tenessero d’occhio, ma erano anche discreti. Certo, agli occhi degli altri.
Ogni volta che li vedeva si malediva tra i denti per aver accettato quel lavoro mesi prima. Una cosa da nulla, ma a quanto pare sufficiente per convincere i fratelli Baath che ora lei era una delle loro risorse, quella che chiamavano per entrare nei cunicoli stretti, per pedinamenti discreti e per i lavori di precisione che solo le sue piccole e agili mani riuscivano a svolgere.
Zula iniziava a infastidirsi: quando li vedeva entrare, le lanciava certe occhiate di fuoco che se avesse potuto gli avrebbe sbattuti fuori dal locale. Ma ne aveva anche paura. Per cui si limitava a schiarirsi piano la voce, chiaro segnale che lei non li avrebbe serviti.
Sedevano sempre allo stesso tavolo, tant’è che Ves ci aveva fatto l’abitudine e ormai era diventato uno dei suoi tavoli.
Un giorno, quando Trotter e un paio di tizi erano appena usciti, Zula le si era avvicinata, nervosa.
«Non so in che guai ti sei cacciata, ma io quelli qui dentro non li voglio più vedere.»
Ves quel discorso se l’aspettava, l’aveva visto arrivare ore prima.
«Non danno fastidio a nessuno, mi pare, e lasciano una bella mancia.»
Zula arricciò le labbra con orrore.
«La mancia te la puoi tenere, non mi devi blandire. Dì ai tuoi amici che qui dentro non ci devono più entrare.»
Ves sospirò, triste.
«Non sono amici miei e non credo mi daranno retta.»
«Tu provaci.», concluse Zula, con uno sguardo che non lasciava spazio a repliche.
Ves non poteva darle torto, anche a lei quegli uomini mettevano addosso un’angoscia che non riusciva a inquadrare: erano come nuvole nere di tempesta nel cielo che avanzavano lente, ma sapevi che prima o poi ti avrebbero raggiunto e allora non ci sarebbe stato riparo che ti avrebbe protetto.
Venivano un paio di volte alla settimana, per cui sapeva che li avrebbe rivisti da lì a qualche giorno. Sperava ci fosse Trotter, con lui aveva più confidenza.
Ovviamente, la fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede benissimo. Quel venerdì si presentarono due omoni tutti muscoli e cicatrici; di Trotter nemmeno l’ombra.
Ves sospirò e bevve una sorsata di caffè nero per farsi un po’ di coraggio. Zula, in fondo al bancone, la squadrò per un attimo con misto di terrore e disgusto: se ne stava sempre dall’altro lato del locale quando il tavolo era occupato, evitando il contatto visivo con quei clienti speciali.
«Che vi porto, ragazzi?»
«Due caffè. Come va, bambolina?»
La chiamavano così, tutti. Tranne Trotter, che la chiamava per nome.
Ves fece un sorriso un po’ esagerato per nascondere il nervosismo.
«Si tira avanti. Voi, tutto bene?»
Rimasero sorpresi della sua intraprendenza, in genere non si intratteneva in convenevoli.
«Non c’è male. Gli affari girano sempre, c’è sempre qualcosa da fare.»
Le stavano proponendo un incarico? Ves osservò che in effetti la sua domanda poteva essere interpretata come richiesta di lavoro. Si morse la lingua.
Quanto poteva sbilanciarsi con questi qui? Poteva essere onesta, dire loro che la proprietaria non voleva fastidi? Che sarebbe stato meglio se avessero condotto i loro controlli altrove? Ma dove? Non certo al nido di Goran. E sperava che non sapessero dove viveva. Anche se qualcosa, in fondo alle viscere le diceva che sapevano tutto di lei. Non aveva scampo ormai. Forse l’unica cosa che li tratteneva dal farle visita era proprio suo figlio. Rabbrividì.
Si chinò per poter parlare a bassa voce. Entrambi le si fecero intorno come compagni di scuola pettegoli.
«Sentite, non so come dirvelo, ma sarebbe meglio che trovaste un altro posto dove bere il caffè. Qui io ci lavoro e la mia capa non gradisce molto che io riceva visite.»
L’uomo la squadrò strizzando gli occhi, diede uno sguardo fugace a Zula in fondo al locale, indaffarata a lucidare la macchina per il caffè che aveva già pulito la sera prima. Tornò l’attenzione su di lei.
«Vedi, bambolina, a noi il caffè che fate qui piace molto. Ci spiacerebbe dover cambiare posto. Inoltre, paghiamo tutte le consumazioni. E, mi pare, lasciamo anche delle belle mance. Quale sarebbe il problema?»
Ves deglutì, si sentiva la bocca piena di sabbia.
«Mi spiace ragazzi, è una politica del locale. Niente visite.»
L’altro si voltò a guardare Zula. Quando aprì bocca, la donna saltò su come una molla, soffocando un urlo.
«Ma signora Zula, ma che problema c’è se veniamo qui un paio di volte alla settimana a bere il suo delizioso caffè?»
Zula guardò l’uomo impietrita. Ves iniziò ad avvertire una stretta gelida di panico prenderla per la nuca.
L’uomo si alzò, avvicinandosi alla donna che, non sapendo dove nascondersi, alzò le braccia e lo straccio che reggeva le cadde dalle mani.
«Oh, guardi, le è caduto questo.», disse l’omone, gioviale, mentre si chinava a raccoglierlo.
Zula continuava a guardarlo, agghiacciata, la bocca aperta in un lamento silenzioso. Allungò la mano e prese lo straccio.
L’uomo rise forte. Zula sussultò.
L’unico altro avventore del locale si rannicchiò nel suo angolo, affondando la testa nel menù. Ves lo osservò spaventata: veniva qui da anni, quel menù lo sapeva a memoria.
L’uomo tornò a sedersi al tavolo.
«Portaci i caffè, bambolina», disse il primo, iniziando a scorrere l’ologiornale davanti a lui.
Ves si mosse, come in trance. Con gesti meccanici raggiunse la caraffa, versò il caffè in due tazze generose che riportò al tavolo. Vedendo che Zula rimaneva incollata al bancone, andò a prendere l’ordinazione dell’altro cliente.
«Cosa desideri, Bob?» disse, sforzandosi di suonare il più rilassata e serena possibile.
Il ragazzo la guardò terrorizzato. Bob ordinava la stessa cosa ogni giorno, Ves lo sapeva, ma doveva parlare con qualcun altro che non fossero quei due.
Lui non si azzardò ad aprire bocca, con un dito indicò una voce del menù e continuò a fissarla immobile.
Ves rimise il pad in cintura, andò a prendere la caraffa di caffè e ne versò un po’ nella tazza vuota davanti a Bob. Poi si avvicinò alla finestrella della cucina.
«Un toast e due uova.»
Zula le scivolò accanto.
«Sei contenta, ora? Ci spaventeranno tutti i clienti!»
Aveva ragione, ovviamente, Ves lo sapeva. Ma non poteva evitare di pensare che, se non avesse parlato, tutta quella scena se la sarebbero risparmiati. Zula sapeva che quegli uomini non avrebbero mai smesso di venire alla tavola calda. Vietarlo avrebbe solo peggiorato le cose. Era da vigliacchi pensarla così, ma non poteva fare altro.
Gli uomini si intrattennero più a lungo quella mattina, il che innervosì Zula ancora di più. Quando non ne potè più di stritolare lo straccio nella mani, si era ritirata dietro la porta di servizio e non ne era più uscita.
Ves aveva continuato a servire i clienti del locale che cominciarono a entrare verso le otto. Molti, vedendo il tavolo occupato, si fermavano sulla porta per poi chiuderla e andarsene. Finché i suoi clienti speciali rimasero nel locale, questo rimase quasi vuoto.
Ves cercò di tenersi occupata come poteva, pulì bicchieri, tazze, passò lo straccio. Qualsiasi cosa piuttosto che attirare l’attenzione dei due uomini. Dopo un’ora abbondante, divertiti, i due uomini se ne andarono, non prima di averle lanciato un lungo sguardo complice: "Stai in campana, bambolina".
Andò a raccogliere i crediti lasciati sul tavolo e portò via le tazze. Quando Zula uscì dal retro aveva una faccia da funerale e gli occhi lucidi.
«Mi spiace, Ves. Così non può funzionare. Ho parlato con Chuck e ci spiace, ma dobbiamo lasciarti andare. Le cose stanno così.»
Ves non se la sentiva nemmeno di protestare: come dare loro torto?
«Me ne vado ora o finisco il turno?»
Zula si schiarì la voce, portandosi lo straccio agli occhi.
«No, rimani fino a fine turno.»


Era stata sul punto di chiamare sua madre, ma poi aveva desistito: non voleva darle la soddisfazione di poter dire “Te l’avevo detto!” o qualsiasi versione della frase.
Aveva anche pensato di contattare Noora, dirgli che cosa stava per fare, sperando che lui la pregasse di tornare. Era un’illusione, lo sapeva. La loro famigliola felice era stata un fallimento, per quanto lei ci si fosse messa d’impegno. Noora si era rivelato un compagno decente, ma un padre distratto. Non aveva mai dubitato del suo amore per Goran, ma sembrava costantemente altrove con la testa, le sue ricerche, le sue lezioni, le sue pubblicazioni. Aveva sempre ammirato la sua dedizione al lavoro, la sua totale abnegazione, come fossa una vera e propria vocazione. Si era illusa che, come lei, anche lui sarebbe stato felice di mettere da parte le sue ambizioni per farsi una famiglia. Ma a quanto pare non è una cosa per tutti. Non gliene faceva una colpa, e forse se le circostanze fossero state diverse, la loro vita insieme sarebbe stata felice.
Sentì il piccolo Goran agitarsi tra le sue braccia e distolse lo sguardo dalla città che scorreva oltre il finestrino dell’aviotaxi.
Raramente il suo bambino piangeva, il più delle volte emetteva un timido guaito che durava il tempo di un bacio sulla fronte.
«Che c’è, amore? Non sei felice di andare dai Jedi? Beh, se ti può consolare, nemmeno io lo sono.»
Goran la fissò con sguardo attento. Sembrava capire quello che diceva, o forse semplicemente percepiva il suo stato d’animo.
Aveva un giochino in mano, l’unico che era riuscita a comperargli: era un tooka di gomma e si vedevano già i segni dei primi dentini di Goran sulle orecchie e sulle zampe.
Iniziò a cantare una ninna nanna. Non conoscendone nessuna, si era inventata delle parole a caso a cui aveva associato la melodia di una famosa canzone pop di quando era adolescente. Goran sembrava gradire il suono della sua voce e aveva imparato a ripetere alcune delle parole quasi alla perfezione. Era precoce.
«Godiamoci questo momento, che dici? Fingiamo di essere in viaggio, una gita io e te, a spasso per il pianeta. O magari via da qui, lontano, su Chandrila e oltre. Sai, c’è un pianeta molto lontano da qui, fatto interamente di oceano!»
Goran rise, come se la parola oceano fosse la cosa più buffa che avesse mai sentito, o come se l’idea di un pianeta senza terre emerse fosse una specie di barzelletta.
«Oppure c’è quest’altro pianeta, completamente coperto di ghiaccio e neve e dove vivono i ferocissimi wampa!»
Finse di mordergli il braccio grassoccio e il bimbo rise di nuovo. Con le piccole dita le toccò il viso, le strizzò le labbra. Lei le prese in bocca.
«Mmmh, che buone queste piccole dita di bimbo. Succose e morbide. Che prelibatezza!»
Goran rise ancora più forte. Ves sentì scoppiarle il cuore.
«Mammmm …» fece il bimbo, come a imitare i suoi versi. Questa volta il cuore di Ves si fermò.
«Mammmmmmma.» riuscì finalmente a dire Goran, e subito sorrise, soddisfatto, appoggiandole l’indice paffuto sulla guancia e sulla fronte.
«Goran, mio grande amore. Sì, sono la mamma, amore mio! Sono la tua mamma …»
Iniziò a piangere. Le lacrime scesero silenziose, non riuscì a fermarle. Goran le vide, le toccò con le dita, le osservò, le portò alla bocca.
«Siamo arrivati.» annunciò il tassista.
Ves si scosse, passò una mano sulla faccia e poi la infilò in tasca, per recuperare la tessera dei crediti. La fece scorrere sul lettore e scese, reggendo Goran in braccio e il suo ridotto guardaroba nella borsa a tracolla. Davanti a lei, la piattaforma di atterraggio e la lunga pedana che conduceva all’ingresso del Tempio Jedi. Goran era silenzioso, i suoi grandi occhi indagatori e intelligenti venivano attirati ora dalla lunga coda di speeder che sfrecciavano sopra di loro, ora dalla fila di luci che illuminavano l’ampia parete della facciata, indicando tutto con il suo dito paffuto. Ves se lo strinse forte al petto, i piedi come due macigni.
In cima alle scale, in fondo alla pedana, vide una alta figura, avvolta da un mantello Jedi, che li osservava, calma. Da quella distanza non distingueva il volto, ma le sembrava di non averla mai vista. Guardò ancora Goran, sperando che i suoi grandi occhi curiosi le dessero coraggio. Si ritrovò a pensare di tornare indietro, saltare a bordo del primo aviotaxi che passava, raggiungere lo spazioporto e fuggire sul primo shuttle verso l’Orlo Esterno.
La figura in cima alle scale fece cenno di avvicinarsi. E così si mosse.
«Tu dei essere Solaves» disse la Jedi. Ves annuì.
«Io sono la Maestra Jedi Adi Gallia. E tu devi essere il piccolo Goran» aggiunse, sorridendo a suo figlio. Era dolce, cordiale, pacata. La odiava. Goran, invece, sorrise sereno ed emise un gridolino felice, come faceva sempre quando qualcuno lo chiamava per nome.
«Seguitemi» fece laconica la Jedi. Ves camminò dietro di lei in silenzio, le labbra premute contro la fronte del figlio, respirando avidamente il dolce profumo dei capelli. Percorsero lunghi corridoi, passarono davanti ad aule e palestre dove bambini in tunica si esercitavano con le spade, studiavano proiezioni di complicati caratteri che non conosceva e combattevano contro ologrammi complessi. Goran osservava tutto con stupore ed eccitazione, agitandosi tra le sue braccia, indicando qua e là ed emettendo squittii gioiosi. Forse sentiva qualcosa, attraverso la sua connessione con la Forza? Avvertiva la mente degli altri bambini? Era sua la gioia, o era condivisa?
Lo osservava, stupendosi ancora una volta della meraviglia che già era e che sarebbe diventato. E si sentiva lacerare dentro dal desiderio di scappare via, nasconderlo, tenerlo per sé. Era egoista provare quel desiderio? O era più mostruoso abbandonarlo lì?
Erano giunti in un ambiente più caldo e luminoso. Il mobilio era di dimensioni ridotte e c’erano bambini poco più grandi di Goran che sgambettavano liberi, o che giocavano con dei cubi colorati, alcuni leggevano e altri erano raccolti intorno a giovani educatrici in tunica che raccontavano loro fiabe e leggende di Jedi storici.
Una delle educatrici, sembrava la più anziana, si avvicinò alla Maestra Jedi Gallia e parlottarono fra loro per qualche secondo. Goran si agitò tra le sue braccia.
«Vuoi giocare con gli altri bambini? Ti sei già stancato della mamma, eh?»
Così dicendo, si chinò a terra e aiutò il figlio ad avvicinarsi a un paio di bimbi che giocavano con forme di legno colorate. Quando lo notò, uno dei due gli allungò la forma che aveva in mano, una sagoma di rancor verde foresta. Goran lo prese e iniziò a studiarlo meticolosamente.
L’educatrice si avvicinò, chinandosi anche lei a terra.
«Salve Solaves. Io sono Paulina, sono la responsabile anziana del nostro nido.»
Ves, che non aveva più aperto bocca da quando era scesa dal taxi, si schiarì la gola.
«Buonasera.»
«Questo è il bagaglio di Goran?» chiese la donna, indicando la borsa che Ves teneva ancora a tracolla.
«Sì.»
Non fece nessun accenno a volersene separare.
Paulina guardò Gallia che torreggiava in piedi accanto a loro, prima di tornare l’attenzione su di lei.
«Prego, la metteremo nell’alloggio di Goran.»
A quelle parole Ves lo strinse a sé e si alzò in piedi.
«Scusate, pensavo di essere pronta, ma non credo sia la scelta giusta per noi. Mi spiace avervi fatto perdere tempo.»
Fece per ritornare nel corridoio, ma Gallia le si parò davanti.
«Solaves, pensaci bene: qui Goran sarà amato, protetto, istruito. Imparerà a usare le sue incredibili capacità, le metterà a frutto.»
«Protetto.» sospirò Ves. Le tornò in mente la mattina in cui si era svegliata riversa a terra nel vicolo dietro l’Outlander, dopo aver fumato lo spacca-cervello. L’orrore di non sapere dove fosse Goran, la paura perché non ricordava nulla di quanto fosse successo quella notte, la corsa disperata a casa, Norma che l’aspettava con suo figlio in braccio, il pianto disperato di Goran, lo sguardo di biasimo della vicina. Il senso di colpa le artigliò lo stomaco.
Guardò il figlio e le lacrime ripresero a scenderle lungo le guance.
Mentre gli appoggiava un bacio sulla fronte profumata, sussurrò: «Buon compleanno amore mio. Non dimenticarti di me, ti prego.»


«Madre, ti prego, smettila. Ti farai venire un’emorragia nasale.»
«Sono sicura che la cosa ti delizierebbe, vero, Solaves?»
Le labbra di Ves si tirarono appena in un malcelato sorriso. Regina se ne accorse.
«Beh, almeno sei allegra.»
Regina riprese a marciare avanti e indietro nell’appartamento della figlia. Ves scosse la testa, ma cercò di ignorarla, mentre finiva di sistemarsi il colletto della giacca da cadetto e controllava che la cintura di ordinanza fosse correttamente allacciata.
«Sai che non ho simpatia per l’esercito, ma se mi avessi manifestato il tuo desiderio di prestare servizio, avrei contattato i Maestri Jedi Shaak Ti o Mace Windu.»
«Sai anche tu che con gli Jedi non funziona così. E comunque, no grazie. Non voglio essere in debito con uno Jedi.»
Regina fissò la figlia nello specchio. La ragazza continuava ad evitare il suo sguardo, risistemandosi la divisa, controllando gli stivali, il berretto.
«A cosa servono poi ufficiali umani quando ci sono i cloni.»
«I cloni sono ben addestrati al combattimento, madre. Ma servono elementi pensanti nella stanza dei bottoni.»
«Tuo padre sarebbe stato entusiasta sapendoti nell’esercito. Non lo avrebbe mai ammesso, ovviamente. Sapeva che volevi intraprendere la carriera diplomatica, specializzarti in xenolinguistica e cultura dei popoli, non voleva farti pressione. Ma sotto, sotto so che sperava che seguissi le sue orme.»
«Papà non è mai stato in guerra.»
«Ha visto la sua parte di battaglie ed emozioni. Ed era amico dei Jedi.»
Ves perse interesse nella discussione; le piaceva parlare di suo padre, ma non le interessava conoscere le sue tresche con i Jedi.
«Sai, madre, non mi capacito di come tu, esperta mediatrice e diplomatica, non sappia evitare di litigare con me. O forse è proprio quello che vuoi.»
«Non sei adatta al campo di battaglia. Non ne hai il fisico, non ne hai la tempra. So perché lo fai. Perché hai fatto tutto quello che hai fatto negli ultimi due anni. Vuoi vendicarti di me, è ovvio.»
Ves si morde le labbra.
«Se non lo hai ancora capito, madre, non ha alcun senso spiegartelo ora.»
«Ah, io l’ho capito! L’ho capito fin troppo bene. E smettila di chiamarmi “Madre”. Chiamami Mamma! Tuo padre lo chiami “Papà”, anche se è morto da sette anni e non ti può certo sentire.»
«Senti, non ho voglia di parlarne. Questa discussione bisognava farla, forse, due anni fa, quando mi hai forzato ad accettare un accordo che è stata una condanna per Goran, Noora e me. Ormai è tardi per tentare di dialogare e capirci, noi due. Tu sei fatta alla tua maniera, e io alla mia. Se papà fosse qui, forse, tra noi sarebbe diverso, ci parleremmo. Sono certa che lui sarebbe stato felice di fare il nonno, di aiutarmi a crescere Goran. Non mi avrebbe allontanato da ciò che avevo di più caro e non mi avrebbe ingannato.»
«Tu non sai cosa tuo padre avrebbe fatto! Facile parlar bene di un uomo morto anni fa, nella gloria. Tu non lo conoscevi come lo conoscevo io.»
«Era mio padre e mi amava. E non mi avrebbe mai fatto soffrire!»
«Tutto quello che ho fatto è stato per evitarti sofferenze!»
«Tu mi hai ucciso!»
Ves era sconvolta. Regina, pallida in volto, rimaneva immobile. Il letto tra loro.
Con gesto nervoso, Ves si sfilò la cintura e se la risistemò in vita.
«Mi hai fatto venire mal di testa.» disse Regina, prima di uscire.
«Bene.» sibilò Ves tra i denti.


«Appena apro quest’affare, tu ti cali dentro e prendi la scatola, ok?»
Ves annuì, continuando a guardarsi intorno.
«Mi hai sentito?» insistette Shenk.
«Ti ho sentito, abbassa la voce.»
«Voglio essere sicuro che non combini casini, bambolina.»
«Tu vedi di non mollarmi qui.»
«La commissione è mia.»
«Allora come mai mi sembra di essere l’unica che rischia qualcosa qui?»
Shenk la osservò per un attimo alla debole luce della torcia, prima di tornare la sua attenzione alla cassaforte.
«Vattene, non sei obbligata a restare.»
Ves si morse il labbro. Shenk sogghignò.
«Lo immaginavo. I soldi ti servono, bambolina.»
L’uomo staccò il quadrante, esponendo i fili. Si mise ad armeggiare con le pinze, controllando i contatti sull’olocom. La porta si aprì senza rumore, scivolando di lato.
«Hai un minuto prima che arrivino le guardie.» disse, lasciandola passare.
Ves saltò dentro: la cassaforte non era molto profonda, ci entrava a malapena, la porta appena sopra la sua testa. piegò un ginocchio e iniziò a tastare avanti e dietro, alla ricerca della scatola. Stando all’immagine sul comlink di Shenk, era di acciaio comune, liscia, con una scanalatura lungo un lato dove, applicando un po’ di pressione, si apriva. Si accorse di esserci sopra, la artigliò con le dita guantate, sorprendendosi di trovarla così pesante.
«Passamela.»
Ves lo guardò, scosse il capo.
Shenk sbuffò e le allungò una mano per aiutarla a salire.
Ves tenne la scatola stretta al petto, facendo leva con i piedi.
Appena fu di nuovo in piedi, sentirono le voci concitate delle guardie in fondo al corridoio.
«Merda!» sibilò Shenk.
Non c’era tempo per raccogliere i suoi attrezzi: uscirono dall’ufficio e si misero a correre nella direzione opposta alle voci.
Il corridoio era lungo e tortuoso: dopo un paio di svolte si fermarono dietro un angolo, davanti a loro un lungo rettilineo che dava su una vetrata. Fuori, la sera di Coruscant era illuminata dalle luci degli speeder e dei palazzi circostanti; dov’erano non si vedeva il livello pedonale.
«Siamo esposti.» disse Shenk, laconico.
Ves alzò lo sguardo al soffitto: qualche passo indietro vide un condotto ad areazione, troppo stretto per Shenk, ma lei ci sarebbe passata.
Senza preavviso, l’uomo si buttò in avanti, percorrendo il lungo tratto di corridoio con il fulminatore spianato. Ves gli andò dietro.
Arrivarono a un tratto più breve, con tre porte su ogni lato.
«Sai dove stiamo andando?»
«No. La mappa è nel mio olocom.»
Ves imprecò tra i denti. Lo superò e provò a una a una le porte. Una si aprì, estrasse il suo fulminatore e si spostò di lato, dando rapide occhiate all’interno. Il locale era buio e piccolo; vedeva scaffali semivuoti e nient’altro.
Entrò, facendo cenno a Shenk di seguirla.
La porta si richiuse dietro di loro, lasciandoli al buio. Ves estrasse il suo comlink illuminando lo spazio angusto.
«Ti aiuto ad arrampicarti lassù» disse a Shenk, indicando un altro condotto per areazione sopra le loro teste.
«Dammi la scatola.»
Ves soppesò l’oggetto che teneva ancora in mano, strizzando gli occhi: non poteva andare da nessuna parte, c’erano guardie ormai su tutto il piano. A meno che …
«Tieni. Se fai scherzi di vengo a cercare e ti sparo.»
Shenk ridacchiò.
«Certo, come no!»
Così dicendo, si infilò la scatola nella giacca e si inginocchiò, mettendo le mani a coppa. Ves ci mise il piede sopra, tenendosi in equilibrio con le mani sulle spalle di lui.
L’uomo emise un sospiro rauco, mentre la issava verso il soffitto.
Appena fu nel condotto, allungò una mano a Shenk e lo aiutò a raggiungerla.
«Che c’è?» fece l’uomo.
«Niente. Pensavo te la saresti filata lasciandomi qui.»
«Bambolina, se metto il piede fuori da quella porta, sono un uomo morto.»
Detto questo, rimise la grata sul bocchettone e la seguì carponi lungo il passaggio. A ogni movimento il condotto rimbombava, costringendoli a procedere molto lentamente.
Avrebbero dovuto tornare sui loro passi per raggiungere lo stanzino da cui erano entrati, un ripostiglio di servizio da cui scendeva un lungo scivolo per i rifiuti, unica via di fuga che avessero.
Sotto di loro sentivano le voci concitate delle guardie che si affrettavano in ogni direzione. Se solo si fossero fermati e messi in ascolto, li avrebbero beccati al volo. Cercò di non pensarci, facendo profondi respiri, concentrandosi sul percorso.
Sentì Shenk toccarle la gamba e si girò indietro: senza parlare, lui le indicò di voltare a sinistra.
Continuarono ad avanzare e, alla prima biforcazione, andarono a sinistra.
Ora il corridoio era più silenzioso: sentiva due o tre uomini parlottare tra loro, uno di loro stava riferendo in un comlink.
«Si, sono riusciti a decodificare il pannello blindato, signore. Pensiamo siano in due, signore. No, solo la scatola, signore.»
Ves intuì di trovarsi sopra l’ufficio con la cassaforte: dovevano procedere di pochi metri per raggiungere lo stanzino dei rifiuti.
Quando calcolò di esserci sopra, diede una sbirciata tra le sbarre della grata, per poi tuffarsi di sotto. Shenk la seguì a ruota. Si calarono nello scarico dei rifiuti, una lunga conduttura che portava al livello 0, in una rimessa per speeder. L’idea era di procedere con cautela, ma quando avvertirono le voci delle guardie sopra di loro, si lasciarono andare e scivolarono giù per il tubo. Atterrarono nel container alla fine della conduttura che per fortuna era pieno. L’atterraggio non fu particolarmente morbido, ma riuscirono a non rompersi nulla.
Quando fu in piedi, Ves si avventò su Shenk spingendolo rabbiosa.
«Tutto calcolato, eh? Quasi ci beccavano! Un minuto, come no!»
«Ehi, bambolina, rilassati. Non esistono commissioni dove tutto è sotto controllo. Ce la siamo cavata bene.»
Ves lo guardò torva.
«Dammi quello che mi spetta e salutiamoci: saranno qui a minuti.»
Shenk sorrise sornione, come se non avesse alcuna fretta. Ves era nervosa, ma non voleva darlo a vedere: sembrava che quel coglione ci provasse gusto a infastidirla.
Dopo un tempo che sembrava non finire mai, Shenk le diede una busta che lei aprì per controllare il contenuto.
«Sono mille, come pattuito. Ci si vede.»
«Preferirei evitarlo.»


Avanzava a passo svelto in mezzo alla folla, facendosi strada a spintoni, ignorando proteste e insulti.
La pioggia era leggera e fastidiosa. Si depositava in goccioline impalpabili su ciglia e capelli e rendeva la banchina scivolosa.
Le piacevano questo tipo di incarichi: semplici da eseguire, veloci da completare. Le informazioni che riceveva erano sempre minime, ma a lei andava bene così. Le domande che le venivano rivolte erano quasi sempre poche e riusciva a farci sempre un certo gruzzoletto che investiva in nuovo equipaggiamento. Spesso non si trattava di altro che pedinare qualcuno, controllare i luoghi dove si nascondeva, le persone che incontrava, il materiale che trasportava. Raramente le veniva chiesto di uccidere e praticamente mai di catturare.
Catturare non era comunque il suo forte, era troppo minuta per riuscire a immobilizzare chiunque. Ma era agile e magra, poteva infilarsi in qualsiasi pertugio e sgusciare tra la folla con rapidità.
Questo incarico in realtà era poco più che una commissione. Doveva seguire il tizio finché non arrivava in un locale chiamato “Il verso del Taun Taun” e avvisare il suo cliente quando ci arrivava. Semplice, pulito. Ma la paga era interessante, ci avrebbe preso qualche cimice-sonda. Peccato la pioggia.
L’obiettivo che stava seguendo si fermò di colpo. Ves si riparò dietro un pilastro, continuando a osservarlo.
Non era chiaro cosa l’uomo stesse facendo, avvolto com’era in un enorme pastrano che lo copriva dalla testa ai piedi. La pioggia rimbalzava sul mantello, creando un alone lattiginoso sopra e intorno alla figura, facendolo assomigliare a una apparizione mistica.
Poi, di scatto, voltò a sinistra.
Ves si ributtò in mezzo ai passanti, in due lunghi passi fu all’angolo e studiò il vicolo in cui l’uomo si era infilato.
Mi ha fiutata, pensò. Emise un grugnito di fastidio.
Il vicolo era poco illuminato, ma non ne vedeva la fine, perché qualche metro più avanti svoltava a destra. Vide la figura superare svelta la curva e sparire.
Raggiunse velocemente la svolta, dando uno sguardo rapido in quella direzione.
Il vicolo moriva lì. Nessun tombino, nessuna porta. Vide il mantello a terra. Alzò lo sguardo verso il cielo, ignorando le goccioline che le entravano negli occhi. Vide l’uomo (allora era proprio un uomo), arrampicarsi lungo le tubature del palazzo.
Che scocciatura!, sibilò piano.
Estrasse un oggetto dalla cintura, qualcosa che assomigliava molto a un comlink di ultima generazione, sottile, non più grande del palmo della sua mano. Ne staccò una parte, qualcosa di molto simile a una monetina, che lanciò verso l’alto.
l’oggetto si mise a vibrare e prese velocità mentre ascendeva verso lo sconosciuto senza emettere il minimo rumore. Lo raggiunse un attimo prima che questi finisse la sua salita e sparisse oltre il tetto del palazzo. Un breve e impercettibile fischio dal comlink che aveva in mano le confermò che il bersaglio era stato agganciato.
Sorrise, azionò il proiettore del comlink e subito una piccola proiezione bluastra dell’uomo in fuga comparve davanti a lei. Con un gesto della mano nell’aria occupata dall’immagine, questa scivolò via e al suo posto comparve una mappa urbana bidimensionale, su cui lampeggiava un singolo punto luminoso in movimento.
«Bene, questo è il segnale che stavo aspettando.»


Ves rimase nel vicolo qualche instante, seguendo il segnale luminoso muoversi lungo la mappa. “Il Verso del Taun Taun” non era tanto distante, per cui immaginò che l’uomo fosse diretto lì. Fu molto sorpresa di vedere che l’uomo si stava allontanando dal quartiere. Rendendosi conto che rischiava di perdere la preda, prese la carta magnetica che aveva trovato frugando nel pastrano e si rimise in movimento.
L’obiettivo stava risalendo i livelli, dirigendosi a Uscru.
Ves imprecava a denti stretti: quello che avrebbe dovuto essere un incarico facile, stava andando troppo per le lunghe e la cosa non le piaceva.
Il percorso seguito dal punto luminoso era incostante e casuale, come se l’uomo non sapesse dove andare o stesse fuggendo da qualcuno.
Ves si fermò.
«Non può avermi visto, gli ho dato un bel vantaggio.»
Con un gesto della mano variò la prospettiva del comlink e ricomparve la proiezione bluastra dell’uomo: il radiofaro era ancora addosso al suo obiettivo.
Accelerò il passo. Una volta che lo ebbe in vista notò che si, in effetti l’uomo si guardava intorno, continuava a girarsi indietro, ad accelerare il passo e ogni tanto si acquattava nell’ombra di un tubo o di un cassonetto.
Continuò a seguirlo a vista per qualche metro. Il bersaglio si muoveva lungo la strada particolarmente affollata a quell’ora della sera. a un certo punto non lo vide più. Raggiunse il vicolo in cui l’indicatore luminoso del suo comlink lo localizzava. Quel tratto di banchina era poco illuminato, ci mise un po’ a identificare una porta di metallo; l’uomo doveva per forza essere sparito lì dentro.
«Merda.» sibilò Ves.
Tornò indietro di qualche passo, controllò se c’erano altre entrate per il palazzo. Sulla strada principale c’era l’ingresso dell’Outlander Club.
«Bel posticino.» si disse Ves, sospirando. Cercò di pensare a un’altro modo per entrare senza dover passare dall’entrata principale, ma sapeva che il locale era ben sigillato e sorvegliato.
Prese una boccata d’aria, come prima di spiccare un tuffo da una scogliera, si coprì il viso con la sciarpa e varcò la soglia.
La familiare danza di luci e colori la avvolse, stordendola. L’aria era resa densa dal fumo e dall’aroma di alcolici e altre sostanze. Il locale era ampio, come tavoli e divanetti disposti su più piattaforme. Il bancone del bar era al centro del locale. Nelle due piattaforme più grandi si trovavano i tavoli per il gioco d’azzardo.
«Che ci sei venuto a fare qui, Jester.» bisbigliò Ves.
Teneva il comlink in tasca, stretto nel pugno. Se fosse stata a cinque metri dall’uomo, il complink avrebbe iniziato a vibrare. Individuò le porte di servizio: l’accesso ai bagni, sgabuzzini, lo spogliatoio per il personale. Entrò in un paio di porte non segnate, ma erano solo magazzini senza accessi sul retro.
Il comlink continuava a dirgli che Jester era nello stabile, si muoveva avanti e indietro in una stanza sul retro che però non sapeva come raggiungere.
“Potrebbe essere un ufficio o una bisca clandestina, anche se non ne vedo l’utilità qui”, pensò guardandosi intorno.
Decise de andare al bancone e ordinare una birra trandoshana.
Mentre beveva appoggiata al bar, un balosar le si avvicinò.
«Vuoi degli spacca-cervello?»
«No, Elan, non voglio degli spacca-cervello. Ma quante volte devi chiedermelo?»
Si girò verso l’individuo accanto a lei.
«Ves, sei tu? Non ti avevo riconosciuta.»
«Hai una brutta cera, per caso hai iniziato a consumare oltre che spacciare, Elan?»
Il ragazzo si guardava intorno, un sorriso ebete stampato in faccia.
«No, ma che dici. Io sono così al naturale.»
«Su questo potresti aver ragione. Senti», fece una pausa, si guardò intorno, riflettendo sulle prossime parole da dire.
«Tu vieni qui da quanto, cinque, sei anni?»
Elan annuì, facendo un’apparente enorme sforzo per mantenere l’attenzione su di lei.
«Sai per caso se c’è modo di, diciamo, organizzare qualche tavolo interessante? Sai, qualcosa di privato, per pochi intimi.»
Elan diede l’impressione di metterci un’eternità per capire la sua allusione. Quando finalmente afferrò il concetto, spalancò gli occhi e le antenne si drizzarono, vibrando nervose.
«Ves, non so cosa intendi. Sai che qui all’Outlander non c’è bisogno di nascondere nulla.»
«Bel tentativo, Elan» replicò Ves.
Gli affondò le dita nella spalla e il gesto strappò al ragazzo una smorfia di dolore.
«Va bene, va bene. So che i fratelli Baath organizzano un tavolo ogni martedì. Ma si entra dal retro, non c’è accesso dal locale.»
«Come faccio a entrare?» insistette Ves, aumentando la stretta.
«Non saprei, in genere entrano solo gli invitati.»
«E tu cosa ne sai? Sei mai stato invitato?»
«Ahia, ahia! Si, cioè, no. Ogni tanto mi fanno salire per rifornimenti» disse il ragazzo, tentando di divincolarsi senza successo.
«Stasera, secondo te, non ne hanno bisogno?»
«Non so, in genere mi fa un cenno uno dei buttafuori.»
«Che ne dici se andiamo a controllare?»
Ves, continuando a calcare la mano sulla spalla del balosar, lo spinse in strada, quindi nel vicolo e davanti alla porta di metallo senza apertura.
Estrasse il comlink e mostrò a Elan il volto di Jester.
«Guarda se vedi quest’uomo, controlla con chi parla, di cosa, cosa fa, tutto. E poi vieni a dirmelo. Adesso bussa» gli disse.
Il balosar, avvilito, diede un paio di colpi sulla superficie.
Con un sibilo, si aprì una feritoia e dietro due occhi gialli studiavano il vicolo.
«Che vuoi, Sabagno?»
Ves, appoggiata contro la porta, mostrò a Elan il calcio del fulminatore che teneva sotto la giacca.
«Mi chiedevo se i tuoi capi avevano bisogno di sballarsi un po’.»
Lo spioncino si richiuse per qualche secondo. Ves si spostò lungo la parete.
La porta scivolò all’interno dello stabile. Elan le diede un fugace sguardo abbattuto, poi scomparve dentro la soglia.


Ves tornò nell’Outlander e ordinò un’altra birra. Studiò i tavoli di sabacc e si infilò una mano in tasca dove rimescolò un paio di volte i pochi crediti che aveva. Rinunciò quindi a giocare, portando la sua attenzione agli olovisori che mostravano un paio di partite di Grav-ball, sport che detestava cordialmente, e le statistiche di Pod Races, che le piacevano, ma in quel momento non c’erano gare in corso.
Sbuffò, prese il boccale che il barista le offriva e ci affondò le labbra, studiando gli altri avventori.
Gli si avvicinò un altro balosar, sconosciuto.
«Vuoi uno spacca-cervello?»
Ves si pulì la bocca col dorso del guanto.
«Dici che dovrei provarne uno?»
In realtà aveva già fumato quella robaccia una volta. Erano state settimane strane, quelle, forse anche mesi. Chi se lo ricordava? Era tutto annebbiato, i giorni si confondevano, non riusciva più a distinguere la notte dal dì. Aveva iniziato a lavorare lì all’Outlander come barista e aveva trovato un appartamento poco distante; aveva venduto molti dei vestiti e degli oggetti che possedeva. Questo, ovviamente, dopo essersi fatta cacciare dall’Accademia militare e la madre non aveva voluto saperne più nulla di lei. Con la guerra in corso, sua madre era più che mai convinta che gli Jedi avrebbero riportato ordine e pace nella Galassia. A Ves quelle sembravano solo storielle della buona notte completamente avulse dalla realtà.
Quella sera, quella in cui aveva fumato il suo primo spacca-cervello, aveva visto tutto con chiarezza per la prima volta.
La cosa era buffa, a pensarci: gli altri si facevano per lo sballo, per il brivido del proibito (in genere erano giovani rampolli di politici facoltosi o addirittura ufficiali dell’esercito), oppure perché erano annoiati e volevano provare qualcosa di diverso. Lei sperava di dimenticare il suo dolore, forse anche lei era annoiata, forse cercava un’emozione diversa. Le luci multicolore dell’Outlander erano diventate psichedeliche, avevano assunto vita propria, danzavano e parlavano con lei, riusciva a toccarle, ad assaggiarle. Non ricorda nessuno in particolare quella sera, se non Elan che le aveva offerto il suo primo spacca-cervello. Quella sera le luci le avevano parlato chiaro. Le avevano mostrato la sua strada. Come un sogno lucido, o una premonizione.
Il giorno dopo aveva iniziato a prendere piccoli lavoretti e commissioni e aveva scoperto di avere un talento naturale per sgusciare nella folla senza farsi notare, rubare cose che altri non riuscivano a rubare, pedinare la gente.


«Che stronzata è questa?»
Ves vide Elan rientrare nel locale in compagnia di un tizio mai visto.
«Allora? Lo vuoi lo spacca-cervello o no? Non ho tempo da perdere!»
Ves guardò il balosar accanto a lei, sudato e con gli occhi sbarrati.
«Fattelo tu, ne hai bisogno» gli disse, prima di alzarsi.
Si spostò sulla pista, dove una manciata di coppie stavano ballando ignare, continuando a fissare l’uomo in compagnia di Elan.
Una cicatrice gli attraversava il viso, chiudendogli l’occhio destro e aprendogli la bocca in un ghigno demoniaco. Un tirapiedi, si direbbe. Di chi, rimaneva da capire. Non lavorava per i fratelli Baath, questo sicuro. Elan sembrava nervoso, più del solito, almeno: si guardava intorno, l’uomo dietro di lui chiaramente gli stava dando indicazioni, o facendo domande. Elan, in evidente difficoltà, muoveva appena le labbra e rispondeva a monosillabi.
Mi stanno cercando, pensò Ves. Se quel tizio mi cerca, non è certo per offrirmi da bere.
La cosa più logica da fare era andarsene subito, ma temeva che Elan avrebbe fatto una brutta fine e non se lo sarebbe mai perdonato.
Controllò il comlink e vide che la spia era morta.
«Merda!»
Retrocedeva sulla pista mettendo sempre più persone fra sé e l’uomo che la stava cercando. Posizione insolita per lei, che in genere era quella che cercava.
«Scusami Elan» bisbigliò tra i denti e si girò, iniziando a raggiungere l’uscita. E quello fu il suo errore.
L’uomo, che a quanto pare con un occhio solo ci vedeva ancora molto bene, le si parò davanti, troppo grosso per dargli una spallata e correre via.
Irrigidì il braccio lungo il fianco. Aveva un fulminatore con sé, ma non lo aveva mai usato e non voleva farlo lì, in mezzo alla gente. Anche se era l’Outlander e, si sa, all’Outlander qualche guaio capitava sempre. Una volta c’era anche scappato il morto.
«Dove credi di andare, bambolina?» le chiese l’omone.
«Dov’è Elan? Cosa gli hai fatto?»
«Non mi preoccuperei per lui, fossi in te.»
L’uomo la prese per un braccio e la trascinò fuori, nel vicolo, dentro la porta di metallo, su per le scale. La rinchiuse dentro uno stanzino vuoto poco più grande di uno sgabuzzino, sparendo chissà dove.
La porta era pesante, non avvertiva suoni.
«Che posto è questo?» si chiese.
Usò il comlink per illuminare lo spazio angusto. Vide macchie scure sulle pareti e sul pavimento, perlustrò gli angoli e quando vide un dente umano, lo spense, pentendosi di averlo acceso.
«Non si mette bene» concluse asciutta.
Individuò un angolo meno lurido, si sedette a terra e attese.
L’uomo fu di ritorno dopo qualche interminabile minuto. Ves si alzò di scatto.
«Non mi metterei comoda fossi in te.»
«Vuoi dire che non mi offrì nemmeno da bere, prima?»
Per tutta risposta, l’omone le calcò un pugno sullo zigomo sinistro, spaccandole la pelle in più punti.
«Cosa vuoi da Jester?»
Quel balosar di merda ha parlato! E io che mi preoccupavo per lui!
Ves serrò le labbra tra i denti. Non aveva molto da dire e dubitava che Mister Sorriso si sarebbe accontentato di quello che sapeva.
Mentre l’uomo le tirava un gancio nelle costole, togliendole il respiro per qualche secondo, si chiese se non era stata mandata come esca per un pesce più grande.
«Per chi lavori?» le chiese ancora l’uomo. Non ricevendo risposta le assestò un diretto sull’orecchio sinistro.
Ves scosse la testa, non per rispondere, ma per scrollarsi di dosso la nebbia che l’ultimo pugno in testa le aveva provocato. Iniziarono a ronzarle le orecchie.
Alzò una mano, cercando di aprire gli occhi sull’uomo davanti a lei. La fioca luce del neon sopra di loro le mandava fitte di dolore lungo il nervo ottico, dritto nel cervello.
«Non ho re’erenti. Riceuo le co’issioni sul co’link.» fu la frase biascicata che le uscì dalle labbra gonfie.
L’uomo sbuffò e abbassò le braccia. Ves tirò un sospiro e si guardò intorno, alla ricerca di eventuali denti persi. Non ne trovò nessuno.
«I pagamenti?»
Ves esitò a rispondere alla domanda.
«Cosa c’è, bambolina, sei già stanca?»
Ves rise piano, avvertì un dolore intenso e acuto nel fianco. Tossì, sentì un grumo caldo e ferroso in bocca e lo sputò a terra. Non riusciva a vedere dov’era finito, ma sapeva cosa fosse.
«Non hai la mano delicata, questo è certo. Quelli come te devono sempre fottere quelli come me, vero?»
Una strana luce attraversò l’occhio dell’uomo.
«Se vuoi possiamo parlarne, bambolina. Ma ridotta come sei non credo dureresti molto.»
Voleva colpirlo, con tutta se stessa. Ma se lo avesse fatto, sicuramente glieli avrebbe restituiti il triplo. Scivolò a terra, incapace di tenersi ancora in piedi. Respirare era dannatamente difficile.
L’uomo si accovacciò davanti a lei.
«Voglio sapere come ti pagano.»
«Ricevo i crediti su un conto.» rispose Ves in un sospiro.
«Quale conto?»
Ves lo guardò. Non gliene fregava nulla. Non sapeva chi fossero i suoi mandanti, se il Sindacato Pyke, gli Hutt o Il Sole Nero. Faceva lavoretti piccoli, cosa innocue e riceveva piccoli compensi altrettanto innocui. Era un pesce piccolo e le andava bene così. Sapeva che se gli avesse dato il conto, sarebbero risaliti al committente e che la sua carriera era finita. Sperava solo quella. In ogni caso, non valeva la pena farsi pestare come una frittella per due migliaia di crediti.
Si infilò la mano nella giacca e tirò fuori il comlink. Premette un paio di pulsanti e apparvero una serie di codici. Lo porse all’uomo.
Questi lo afferrò e uscì dallo stanzino, che ripiombò nel buio.
«Tanti saluti, comlink.»
Stava per addormentarsi, o svenire, quando la porta si riaprì. Non era Mister Sorriso, la sagoma era più piccola, dimessa, familiare.
«Elan, bastardo!» sibilò Ves, alzandosi di scatto.
Le girò la testa, il dolore al fianco tornò a farsi sentire.
«Perdonami Ves, quelli ti stavano aspettando. Sembra che questo Jester faccia il doppio gioco. I fratelli Baath sono nervosi in questo periodo …»
Ves non era interessata a quelle chiacchiere: l’avevano fregata e tanto le bastava. Raccolse le ultime forze che le rimanevano e riuscì a tirare un pugno dritto sulla mandibola del balosar e farlo cadere a terra. Lo scavalcò e iniziò a correre per il corridoio, nella direzione da cui ricordava di essere entrata. Sentì della concitazione alla sue spalle, urla, imprecazioni, spintoni.
Avvertì un dolore bruciante dentro la coscia sinistra, lampi e scintille sopra la sua testa, lungo le pareti, fischi di fulminatori. Il ginocchio le cedette, inciampò nei propri piedi, a fatica riuscì a non cadere. Si era calata la testa nella spalle, schivando i laser.
Arrivata alle scale iniziò a discendere, ma dopo i primi due scalini era scivolata, perdendo l’equilibrio. Si era rialzata ai piedi dei gradini dopo un paio di ruzzoli e qualche botta in più. Si era riparata dietro una colonna, il fulminatore in mano. La porta di metallo era lì davanti a lei. Quando le prime gambe apparvero dalla cima delle scale, iniziò a sparare. Quelli si fermarono, qualche colpo andò a segno. Aveva guadagnato forse un secondo che usò per attivare il congegno di apertura e tuffandosi oltre la porta che si apriva.
Appena in strada, aveva iniziato a correre, usando il fiato che non credeva di avere.
Attraversava folle di persone, vicoli, svolte, strade. La pioggia scendeva tagliente e fredda. Il calore che la teneva in movimento si andava dissipando e iniziò a girarle di nuovo la testa. Quando capì che non sarebbe riuscita a proseguire oltre, si gettò in mezzo a dei rifiuti. L’ultimo pensiero prima di perdere i sensi: “Sto morendo.”


Torna alla home

Cronache dell'Oscurantismo • Oltre Coruscant

Regina non riusciva a dormire. Gli eventi stavano correndo troppo in fretta e lei non riusciva a tenere il passo con quanto accadeva. Non avere il controllo della situazione le metteva addosso una sensazione di inadeguatezza, di inettitudine a cui non era abituata. Non conoscere tutti gli esiti possibili le insinuava il dubbio, un dolore quasi fisico alla tempia sinistra, un fastidio sordo e martellante. Troppe cose le sgusciavano via tra le dita come uova di snee, ed erano altrettanto fragili. Decise di andare in cucina: forse con un bicchiere di latte e una pillola sarebbe riuscita a riprendere sonno.
Vide che la fioca luce della cappa era accesa e per un secondo pensò di raccogliere il pesante vaso di pietra lavica di Mustafar che campeggiava nel salone e di usarlo per aggredire l’intruso. Poi ricordò che la figlia aveva dormito da lei quella notte.
Fu sul punto di fare dietro-front e ritornare nella propria stanza: non se la sentiva di parlare con nessuno, tantomeno con Solaves che aveva passato le ore dopo il funerale del figlio a piangere nella camera degli ospiti.
«Madre, sei tu?»
La voce era impastata. Forse aveva esagerato con le pillole.
Fece due passi, raggiunse la porta della cucina.
«Dovresti dormire.» disse alla figlia, mascherando con la freddezza il mal di testa e l’ansia che la stavano divorando.
«Ho dormito anche troppo.» fu la risposta farfugliata della ragazza.
Regina si versò un bicchiere di latte e si sedette sul tavolo davanti alla figlia. Ves teneva la testa tra le mani, davanti a lei una bottiglia aperta di liquore.
«Hai in mente di finirlo prima di domani mattina?» chiese.
Ves sollevò la testa e la fissò con gli occhi rossi e gonfi.
«Forse.»
«Pillole e alcol non sono proprio una combinazione ideale, Solaves.»
«Mi sembrano invece la risposta a tutti i miei problemi attuali.»
Regina non voleva infierire, non quel giorno. Era stanca di piangere, arrabbiarsi, litigare, e piangere ancora.
Erano quattro anni che non vedeva la figlia e le sembrava ancora una bambina, ma anche vecchia allo stesso tempo; era sicura di aver visto un paio di capelli bianchi che quella mattina non c’erano.
Ves aveva appoggiato la fronte sul tavolo. Regina iniziò ad accarezzarle la frangia, Ves non respinse la sua mano.
Ad un tratto la luce aumentò di intensità e 3D1 entrò nella stanza, annunciato dallo sferragliare dei suoi arti.
«Oh, scusate. Non pensavo foste entrambe in piedi.»
Ves e Regina strizzarono gli occhi e alzarono le mani, riparandosi dalla luce.
«La luce è troppo intensa?» chiese il droide.
«Si, 3D1, ti prego: abbassala.»
Senza che il droide si muovesse, la luce calò di intensità.
Ves guardò la madre.
«Non ti fai mancare proprio nulla.»
«Un upgrade che ho acquistato con l’appartamento.»
«Già. Proprio un bel posticino.» osservò Ves, bevendo un altro sorso dalla bottiglia.
«Non aveva senso rimanere in quella enorme casa vuota, ti pare?» disse Regina, togliendole il liquore dalle mani e cedendolo a 3D1.
Ves non protestò, anzi, sembrò non accorgersene nemmeno.
«Sei ubriaca, Solaves. Lascia che ti accompagni in camera.»
Ves scosse la testa.
«Non ho sonno. E non sono neanche lontanamente ubriaca quanto vorrei.»
«Se posso, miss, conosco una serie di movimenti e punti di pressione per indurre il rilassamento e la sonnolenza.»
«Scusami, 3D1. Sei gentile, ma sinceramente non sono in vena di coccole in questo momento.»
Il droide scosse la testa un paio di volte a destra e sinistra.
«Le coccole non rientrano nella mia programmazione, miss.»
Ves emise una risata liquida.
«Cosa sei venuto a fare qui, 3D1?» chiese Regina.
«I miei sensori mi hanno avvertito che eravate sveglia, madame, per cui sono venuto a vedere se avevate bisogno della mia assistenza.»
«Dei tuoi massaggi, magari?» disse Ves, ma la frase era diretta alla madre.
«Grazie 3D1, ma stiamo bene così. Torna pure al tuo posto.»
«Certo signora. Con permesso.»
Il droide uscì dalla cucina e la luce si affievolì. Rimase solo quella della cappa.
Ves si alzò e recuperò la bottiglia di liquore dalla dispensa.
«Credo tu ne abbia avuto abbastanza.» fece Regina che si alzò e tentò di afferrarle di nuovo la bottiglia.
Ves si scostò da lei e tornò a sedersi.
«Io credo di no. Anzi, credo che la berrò tutta. Voglio ubriacarmi al punto di dimenticare chi sono. Potrei anche arrivare al punto di dirti che ti voglio bene, madre. Pensa, quanto ubriaca voglio essere!»
Regina la fissò triste, la mente affollata da mille parole da dire. Ma ammise che non c’era nulla nel suo vasto repertorio che fosse adatto a una madre che aveva perso il suo unico figlio. Per un attimo immaginò che Solaves non ne avrebbe avuti altri, che sarebbe stata sola per il resto della vita. La immaginò così come la vedeva ora, tra dieci anni, venti. O forse sarebbe morta domani. Chissà? Forse sarebbero morte entrambe entro pochi mesi.
«Mi dispiace, Solaves.»
Regina riportò il suo mal di testa a letto, più pulsante che mai.


«Mon, non credo di farcela.»
Regina e Mothma sedevano una accanto all’altra sullo speeder. La corsa fino a quel momento era stata silenziosa. La giovane non sembrò turbata, si limitò a fissare lo sguardo del suo autista nello specchietto retrovisore.
«È una giornata di lavoro come un’altra al Senato. Il palazzo è sempre lo stesso, la città è sempre la stessa. La Galassia è sempre la stessa: solo la forma di governo ha cambiato nome.»
Mon scoccò un’occhiata a Regina, scoraggiandola dal parlare davanti al suo autista.
Quando scesero sulla pedana di atterraggio davanti al Senato la prese sottobraccio e le parlò in un sussurro, continuando a sorridere agli altri senatori che incrociavano.
«Scusami, non mi fido del mio autista.»
Regina la osservò e imitò il sorriso.
«Scusami tu, mi sono lasciata prendere dallo sconforto.»
Mon le strinse ancora di più il braccio, il sorriso svanito dalle sue labbra.
«Mi spiace molto per tuo nipote. Come sta Ves?»
«È distrutta. Non litighiamo nemmeno più. È come se avesse perso la voglia di vivere.»
«Se posso fare qualcosa, qualsiasi cosa …»
«Grazie Mon, sei molto cara. Passa a trovarci quando vuoi, sono sicura che Solaves sarà felice di vedere un volto amico. Siete sempre state tanto unite prima di … questo.»
Si fermarono davanti alle alte navate che portavano all’ingresso principale.
«Ci siamo. Sei pronta?» le chiese Mon.
«Devo esserlo.»
«Sai cosa mi disse mia nonna il giorno che partii per venire a Coruscant? Mi disse “Se ti sentirai triste, metti un altro po’ di rossetto e falli neri!”»
Regina sorrise.
«L’ho lasciato a casa. Puoi prestarmi il tuo?»


Riemerse dalla camera da letto senza sapere dove si trovasse.
«Buongiorno, Miss.» la salutò il droide. Per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare come si chiamava.
«Dov’è mia madre?»
«Madame è andata al lavoro, Miss.»
«Giusto, giusto.» biascicò Ves.
«Desidera pranzare?»
Ves, che al pensiero del cibo ebbe un conato di vomito, scosse il capo.
«Non si sente bene, Miss?»
Ves non rispose, non ce ne fu bisogno: ritornò di corsa nella camera degli ospiti, la attraversò e si precipitò nel bagno, appena in tempo per svuotare lo stomaco nello scarico.
Sentì lo sferragliare del droide sulla porta.
«Conosco giusto un rimedio per …»
«Va bene così! Adesso mi passa. Grazie!» esclamò Ves, la testa tra le mani.
Sudore freddo iniziò a colarle sul viso e dietro il collo, le ronzavano le orecchie. Avvertì un’altra contrazione dell’addome e si piegò sulla tazza.
Non sentì il droide avvicinarsi, ma avvertì le sue mani sulla nuca.
«Le trattengo i capelli, Miss.»
Si passò la manica sulla bocca prima di rispondere.
«Non serve, penso che mi farò una doccia.»
Il droide, rianimandosi all’improvviso, aggiunse quasi cinguettando.
«Allora lasci che le porti un accappatoio pulito, Miss.»
Uscì dal bagno sferragliando gioioso. Ves era incredula.
Si guardò intorno, studiando quel bagno che le sembrava di vedere per la prima volta. Non ricordava da quanti giorni fosse lì dalla madre. Il giorno del funerale le sembrava avvenuto anni prima, perso nella nebbia dei ricordi. Ricordava la pira in fiamme, ricordava l’odore di olio profumato. Ricordava il volto del suo bambino, addormentato, rigido. L’ultima volta che lo aveva visto e aveva giocato con lui aveva un anno. Le era sembrato più grande, maturo, ma aveva riconosciuto le fossette e le labbra carnose, le sopracciglia sottili e chiare, la spruzzata di lentiggini sul naso.
Arrivò un altro spasmo e Ves vomitò ancora, ma questa volta erano solo liquidi. Si sentì le gambe molli e scivolò sul pavimento, reggendosi alla tazza dello scarico. Ricominciò a piangere debolmente, forse per stanchezza, forse di riflesso.
«Vedrà che un bel bagno le farà bene, Miss.» sentì la voce metallica, eppure dolce del droide accanto a lei.
D’istinto allungò una mano per sollevarsi da terra. Il droide la tenne tra le braccia metalliche come meglio potè, poi quando fu in piedi, fece per allontanarsi. Ves lo trattenne per le spalle.
«Ti prego, rimani.»
Alzò lo sguardo sul viso inespressivo del droide, gli occhi di una soffice luce quasi bianca.
«Ho bisogno di una mano per entrare nella vasca.»
Il droide l’aiutò a spogliarsi e la sorresse mentre si calava nell’acqua calda. Quando fu sicuro che Ves fosse comoda, raccolse la veste da notte e uscì.
Dopo il bagno caldo si sentiva rinata. Aveva ancora quel fastidioso mal di testa, ma sentiva anche che le era tornata la fame.
In cucina, il droide stava apparecchiando, mentre qualcosa di appetitoso cuoceva nel forno.
«Prego Miss, si sieda. Le sto preparando un pasticcio di pollo e patate.»
«Grazie …» perché non ricordava il nome?
«… 3D1, Miss.»
«Grazie 3D1. Scusami.»
Doveva ammettere che quel droide protocollare era notevole. La madre lo aveva acquistato dopo la morte del padre, che aveva sempre preferito la servitù umana. Prima di allora ne aveva visto qualcuno, quando con la madre andava a far visita ad altri senatori o in qualche ristorante prezzolato, ma erano tutti asettici, con modi affettati e poco attenti. Probabilmente questo era un modello avanzato, o forse sua madre se lo era fatto personalizzare. Non le dispiaceva essere coccolata a quel modo. Le tornò in mente l’offerta del droide di farle i massaggi. Per quanto fosse premuroso, dubitò che la sua mano sarebbe stata tanto delicata quanto i suoi modi.
Quando 3D1 le mise il piatto davanti, insieme a un ciotola di formaggio fuso, iniziò a mangiare.
«Da quanto sono qui?»
«Sei giorni, Miss.»
Ves tossì, 3D1 le allungò un bicchiere di latte.
«Ma sono stata ubriaca tutto il tempo?»
3D1 dondolò il capo come per capire la domanda.
«Ha dormito, per lo più. Madame le ha offerto delle pillole. Di quelle ne ha una bella scorta!»
Si guardò intorno, oltre la porta che dava sul salotto. Dietro il divano l’ampia vetrata e al di là di questa i palazzi, la foschia, gli speeder, il cielo rosa. Dovevano trovarsi in un bel quartiere se si vedeva il cielo.
«Come ci sono arrivata qui?»
«L’hanno portata i paramedici. Era ricoverata al Poliambulatorio Repubblicano.»
Ves cominciava a ricordare cosa le fosse successo. Ricordava il vicolo, i rifiuti su cui era collassata. Le tornò in mente Jester, il pedinamento fino all’Outlander e poi aveva chiesto a Elan … l’immagine del mercenario che l’aveva pestata come una polpetta le esplose nella testa. Posò la forchetta, improvvisamente non aveva più fame. Si guardò la mano mutilata, quel dito indice mozzato all’altezza della terza falange. Beh, pensò, risparmierò sullo smalto!
Si tastò il fianco e il viso.
«Tenga.» disse 3D1, allungandole uno specchio.
«Pensavo peggio.» disse, osservando i tagli su zigomo e labbra già in via di guarigione.
«Chi le ha fatto del male, Miss?»
«Gente non proprio simpatica.»
«No di sicuro, Miss!»
Ves lo osservò. Aveva fatto una battuta?
«Non mangio altro, grazie 3D1. Che ne dici di un caffè? E non è che hai qualcosa per il mal di testa?»
«Certo Miss, ci penso io. Preferisce consumare il caffè sul terrazzo?»
Ves si alzò da tavola.
«No, non ho voglia di uscire. Portamelo in salotto. Grazie.»
Quando il droide tornò con una generosa tazza fumante e una discreta scatola di alluminio, aveva già trovato lo stereo della madre e aveva avviato un po’ di musica.
«Grazie, 3D1.»
«Le serve altro?»
«No. Puoi farmi compagnia?»
Ves iniziò a dondolare piano stringendo la tazza di caffè al petto. Aveva preso la pillola e attendeva che facesse effetto. Bevve una lunga sorsata calda.
«Ti va di ballare, 3D1?»
Sentiva la testa leggera, il collo morbido. Bene.
Il droide si agitò in quel suo modo buffo che ormai aveva imparato.
«Non fare complimenti, sono sicura che mia madre ti ha installato qualche routine di danza.»
Appoggiò la tazza sulla consolle, allungò la mano e lo tirò a sé. 3D1 esitò come una ragazzina timida al ballo della scuola.
«Sono solo passi base, Miss. Madame non ha mai richiesto questa specifica funzionalità e …»
«Non preoccuparti, fidati di me. Qualche passo riesci a farlo. E poi, questo brano è lento, devi semplicemente dondolare. Vedi? Così. Segui me.»
«Seguirla, Miss? Le routine di danza che ho nella mia programmazione sono per la parte maschile. Dovrei portare io, Miss.»
Ves ridacchiò: la pillola le era entrata in circolo ed era finalmente rilassata.
«Allora porta, 3D1.»
Il droide le cinse la vita con un braccio, evitando di stringere troppo forte, e sollevò l’altro perché Ves potesse appoggiarvi sopra la mano.
Scivolarono sulle note di un brano pop lento che non conosceva. Immaginò sua madre in quella stanza, sola, mentre ascolta brani classici e si lascia cullare da quell’uomo di latta dal cuore d’oro.
Appoggiò la testa intorpidita sulla spalla del droide. Non era fredda di per sé, ma sicuro non era comoda. Ma era esausta e per il momento andava bene così.
Il brano finì e ne iniziò un altro. Lo conosceva, si mise a canticchiare dietro le labbra chiuse. Chiuse anche gli occhi e probabilmente fu sul punto di addormentarsi. Aveva già cantato quella melodia tante volte. Ricordava grandi occhi nocciola indagatori, guance paffute che riempiva di baci, manine grassocce da mordicchiare, le risate cristalline del suo bambino mentre gli faceva le pernacchie sul pancino morbido.
Si bloccò di colpo e si allontanò da 3D1. Aveva ripreso a piangere.
«Scusami, 3D1, sono stanca. Torno a letto.»
Scappò via prima di sentire la risposta del droide.


«Mi hai convocata. Ebbene?»
Regina era a disagio. Essere dalla parte sbagliata della scrivania le dava una sensazione di debolezza, di inferiorità a cui non era abituata.
Il senatore Gal Abner, seduto sulla poltrona davanti a lei, la fissava e un fiume di parole non dette correvano lungo quello sguardo tra i due.
Alla fine, con un sospiro, l’uomo le fece cenno di sedersi e iniziò a parlare.
«Ho parlato con il mio informatore. Non è facile di questi tempi sapere di chi potersi fidare. È una giungla là fuori, sono tutti pronti a pugnalarti alle spalle e a vendere le loro chiacchiere al miglior offerente. Ma penso di potermi fidare di questo individuo: odia Palpatine almeno quanto noi e non è di queste parti.»
«Se non è di Coruscant, come fai a sapere che le sue informazioni sono attendibili?»
Gal allungò una mano per spostare un vaso alla sua destra di qualche millimetro, per poi riportarlo alla sua posizione iniziale.
«Diciamo che è un commerciante e che gestisce merce rara e di grande valore. I suoi clienti sono persone molto facoltose con interessi particolari che non vogliono si sappiano. È uno che sa tenere segreti.»
«Eppure con te ha parlato.»
Gal ritornò lo sguardo sul vaso, alzò la mano, ma la ritrasse subito.
«Va bene, se ti fidi, mi fido anch’io» sospirò Regina.
Gal continuò.
«Nei giorni successivi la proclamazione dell’Impero i suoi clienti sono spariti. Non definitivamente, ma per un paio di settimane non si sono fatti più sentire e non hanno mandato valletti o droidi a ritirare la merce. La merce che entro un settimana non viene ritirata viene occasionalmente restituita al mittente, ma il più delle volte la fa spostare in un altro magazzino di stoccaggio che tiene su un pianeta periferico, un piccolo mondo di nessuna importanza dove la gente si fa i fatti propri, diciamo così.»
«C’era qualcosa di particolare nel carico?»
«Un oggetto non venne mai reclamato. Nè dal committente, né dal produttore. Il mio amico non è un uomo curioso, per cui era pronto a distruggere l’oggetto in questione. Ma una cosa lo insospettì di tutta la transazione, per cui aveva controllato i dati del carico.»
«E …»
Gal sorrise.
«C’è un motivo per cui questo mio amico non è particolarmente curioso. Vedi, il fatto è che ha una memoria formidabile: ricorda nomi, volti, date, numeri, frasi, a volte interi dialoghi. Quando una persona ha una capacità così particolare, non ha bisogno di essere curioso.»
«Se ha una memoria tanto prodigiosa, come mai ha controllato i dati del carico? Non li ricordava?»
«E qui sta la particolarità della situazione. Erano stati alterati. Mi ha confidato che la persona che aveva fatto l’ordine usava uno pseudonimo. Come ti dicevo, non è un uomo curioso e finché il cliente paga e non ci sono sorprese, a lui va bene così. Quello che non gli tornava era il documento di carico, che era stato modificato. Il mio amico è un uomo molto intelligente: non informa i propri collaboratori della sua capacità. Lui la considera una assicurazione: se qualcuno mette le mani dove non deve e tocca cose che non deve toccare, lui se ne accorge.»
«Come era stato alterato il documento?»
«Era stato variato il peso. La cosa curiosa, però, era che il peso del carico non era variato, ma solo la voce sul documento: era stata aumentata. Di esattamente dodici chili e quattrocentocinquanta grammi.»
Regina corrugò la fronte.
«Non capisco cosa …» aveva iniziato a dire, ma si era fermata. Gli occhi le si spalancarono.
«Hanno tentato di contrabbandare qualcosa fuori Coruscant?»
Gal annuiva, sornione.
«In genere, la merce rimane lì nel magazzino finché qualcuno non viene a reclamarla. Non ha importanza chi, se il committente o qualcun altro. Spesso vengono organizzate delle aste.»
«E immagino che partecipino molti garzoni e valletti al servizio di altrettanti pseudonimi.» aggiunge Regina.
«Quel carico non ha fatto in tempo a partecipare a nessuna asta. Qualcuno è passato a chiedere, usando il nome del committente.»
«E adesso mi dirai che non era il committente. Qualcuno che lo conosce? Che conosce i suoi traffici?»
Gal scosse il capo.
«Il carico è stato pesato. E indovina?»
«Il peso coincideva con il documento?»
Gal annuì ancora.
«Non hanno controllato il contenuto?»
«Non lo fanno mai. Ma il mio amico ha fatto tracciare il pacco fino alla sua destinazione finale.»
«E quale sarebbe?»
«Antar 4.»
«E perché pensi che sia importante? Credi siano stati i Separatisti?»
Gal aveva lo sguardo fisso in quello di lei.
«Si è persa ogni traccia del contenuto, ma secondo me no. Regina, seguimi. Ci sono dei partigiani su Antar, un gruppo di ribelli che ha combattuto contro i Separatisti durante la Guerra. Se hanno contrabbandato qualcosa fuori Coruscant, non sono sicuramente Separatisti. Ci scommetterei la testa che sono stati questi lealisti.»
Regina si accasciò contro lo schienale della sedia, pensierosa.
«Non mi piace, Gal. La situazione su Antar è difficile. Tarkin è stato nominato Moff in quel settore dall’Imperatore. Quell’uomo è un arrivista, senza cuore, senza morale. E poi perché i lealisti dovrebbero contrabbandare qualcosa fuori dalla Repubb … dall’Impero?»
«Perché sono stati traditi! Tarkin li sta facendo arrestare.»
«E perché mai? Hanno combattuto per la Repubblica.»
«Per lui gli antariani sono tutti traditori e doppiogiochisti.»
Regina aveva mille pensieri che le si affollavano nella testa.
«Quindi c’è un piccolo gruppo armato che si sta opponendo all’Impero? Sei sicuro di questa informazione?»
«Il mio amico dice che è la sola spiegazione logica.»
«Dobbiamo avvisare Mon e Bail. E scopriamo chi conosciamo su quel sistema.»


La luce filtrava fioca dalle finestre oscurate, l’intensità aumentata lentamente, per agevolare un risveglio dolce e naturale. Ves allungò un braccio verso l’altro lato del letto. Sentendolo vuoto, sollevò la testa da sotto il cuscino e si guardò intorno; non c’era nessun altro nella stanza.
Si alzò, avvolgendosi nel lenzuolo e uscì a piedi scalzi nel soggiorno e poi verso la cucina.
Noora era ai fornelli, un profumo di uova e pancetta riempiva la stanza.
«Buongiorno» fece Ves.
«Buongiorno» rispose lui, guardandola da sopra la spalla. Con la spatola indicò il tavolo già apparecchiato.
«Siediti, qui è quasi pronto. Il caffè è già caldo.»
Ves si versò una tazza generosa e iniziò a soffiarci sopra.
«Sei un tradizionalista, ti cucini da solo la colazione.»
«È l’unico pasto della giornata che preparo: il resto del giorno sono in Accademia o in riunione.»
«Di cosa ti occupi ora?»
Noora spense la piastra di cottura, si girò e iniziò a servire la colazione nei due piatti davanti a lei.
«Tengo ancora lezioni all’Accademia, ma ogni tanto vengo invitato a partecipare a conferenze. Gli imperiali sembrano molto interessati ai mondi esterni, alle loro religioni, le loro risorse.»
«Immagino» borbottò Ves, sorseggiando il caffè.
Noora allungò una mano a stringere la sua, ma Ves lo respinse, prese la sua forchetta e iniziò a studiare il contenuto del suo piatto.
«Non ti ho chiesto cosa preferisci, ho preparato quello che mangio io di solito.»
«Va bene. In genere non faccio colazione.»
Non gli disse che aveva ripreso a consumare pasti regolari solo nelle ultime due settimane.
Chiacchierarono del più e del meno, svogliati, evitando accuratamente di parlare del banta nella stanza.
Infine Noora, evidentemente, non riuscì più a tenersi.
«Perché sei venuta da me ieri sera?»
Ves smise di giocare con il cibo e si alzò, un’altra tazza fumante in mano.
«Dovevo uscire da casa di mia madre, non ne potevo più.»
«Sai che non poi rimanere qui.»
«Non posso o sei tu a non volermi qui?»
«Non è sicuro rimanere. Mi sorvegliano.»
«E allora andiamocene. Lasciamo Coruscant. Insieme.»
Noora prese piatti e posate e li gettò nel lavello.
«Non essere ridicola, l’Impero ha spie ovunque. E dove potremmo andare? Dove potrei esercitare?»
«Sei un ingenuo se pensi di continuare a fare il professore sotto l’Impero.»
«No, Ves, l’ingenua qui sei tu che pensa di poter fuggire e far perdere le proprie tracce.»
Ves scrollò le spalle.
«La Galassia è molto vasta.»
Noora grugnì e uscì dalla stanza. Ves lo seguì in sala.
L’uomo raggiunse la consolle, prese una pipa e se la mise tra le labbra, aspirando avidamente.
«Perché vuoi fuggire? Tua madre potrebbe garantire per te, trovarti una posizione…»
«Non ci rimango su questo pianeta. Non dopo quello che è successo. E non nominare mia madre.»
«Tua madre ora è l’unica speranza che ti rimane di avere un futuro. Io davvero non ti capisco! Cos’hai combinato in tutti questi anni? Come sei sopravvissuta? No, come non detto, non lo voglio sapere.»
«No, adesso te lo dico, è giusto che tu sappia come ha tirato a campare la madre di tuo figlio. Ho rubato, va bene? Ho fatto lavoretti sporchi per gentaglia che è meglio non conosci. All’inizio ho provato a fare un lavoro normale, onesto. Per Goran.»
Ecco, lo aveva nominato. Era finita.
«Smettila, Ves. Non puoi tirare in ballo il bambino ogni volta che vuoi giustificarti.»
«Nostro figlio, Noora. Non è un bambino qualsiasi. O ti sei dimenticato? Non ricordi più la tua promessa?»
«Era nostro figlio, ora non c’è più. E non ho dimenticato. Ma è una promessa che ora non vale più nulla.»
«Non solo ora. Non ha mai avuto nessun valore, specialmente per te.»
«Che cosa vuoi, eh? Cosa dovremmo fare ora? Averne un altro? È per quello che sei venuta da me ieri sera? Per quello mi hai supplicata di fare l’amore con te?»
«Quello che ho fatto ieri sera l’ho fatto perché mi girava di farlo, va bene? Avevo bisogno di provare qualcosa, qualsiasi cosa. Non che sia servito a molto.»
«Non è servito a niente! Noi … questa cosa non esiste più. Smettila di inseguire i fantasmi, Ves.»
Noora abbandonò la pipa sulla consolle, che sparse brace e cenere tutt’intorno, e si allontanò verso l’unica vetrata dell’appartamento. Alti palazzi erano visibili ovunque.
Ves lo guardò, per un attimo fu tentata di stringerlo, appoggiare la testa contro la sua schiena piegata e piangere. Ma cambiò subito idea.
«Scusami, è stato un errore. Dammi cinque minuti e sono fuori di cui. Non mi vedrai più.»


«Ha bisogno di qualcosa, Miss?»
«Sì, grazie 3D1. Potresti per cortesia chiamarmi un taxi?» rispose Ves senza voltarsi, continuando a piegare i suoi pochi vestiti e riporli nella valigia.
«Se ne va, Miss?» chiese il droide, indugiando sulla porta della sua stanza.
«Sì. Mi sono trattenuta troppo, la mia vita deve andare avanti. E anche quella di mia madre.»
3D1 piegò la testa di lato, come per ascoltare un rumore o raccogliere un pensiero.
«L’appartamento è abbastanza grande per entrambe, Miss.»
Ves emise una risatina rauca.
«Dimentichi i nostri giganteschi ego, 3D1: per quelli non basta Coruscant.»
«Dove andrà, Miss?» chiese il droide. Era triste?
Ves si fermò, considerando seriamente la domanda.
Buttò l’ultima maglia nella valigia e si sedette sul letto. 3D1 le si avvicinò.
«Non posso tornare nel mio vecchio appartamento. Non posso tornare alla mia vita di prima. Direi che ho dato abbastanza.»
«Allora rimanga qui.»
Ves lo guardò. Non poteva cercare conforto negli occhi di un droide protocollare, ma il gesto le venne spontaneo. Allungò una mano ad afferrare quella metallica e lucida di lui. Il droide accolse l’invito e si sedette su letto accanto a lei. Sotto il suo peso, il materasso cedette con uno sbuffo di dolore.
«Se rimango non combinerò mai nulla, 3D1. Devo decidere cosa voglio fare della mia vita e farlo. Ah, sono un disastro!»
Si prese la testa tra le mani e si stropicciò la faccia.
«Mi sono scavata da sola questa fossa e adesso tocca a me uscirne. “Sono l’architetto del mio disastro.”»
«Come mai non può tornare a fare quello che faceva prima?»
Ves rise di nuovo.
«Diciamo che non è il tipo di lavoro con assicurazione sanitaria e benefit. Non è qualcosa che si fa per tutta la vita. Anche se molti ci invecchiano dentro come in una prigione.»
3D1 non fece altre domande. Ves lo guardava e ancora le sembrò umanamente meditabondo, come se stesse riflettendo sulle informazioni che aveva appena ricevuto.
«Un droide conosce il suo scopo, il motivo per cui viene creato. Io sono un droide protocollare per uso domestico, sono connesso all’appartamento e tutte le mie funzioni sono codificate nel mio disco fisso. Ogni tanto viene eseguito un aggiornamento da remoto, sa, correzione di bachi, aggiunta di nuove funzioni. Ma lo scopo finale rimane sempre quello, ovvero servire il mio padrone e proteggerlo, servire i suoi ospiti, occuparmi della casa.»
«Mi stai dicendo che noi umani siamo difettosi perché non conosciamo il nostro scopo dalla nascita?»
3D1 la guardò di nuovo e questa volta Ves fu sicura di vedere un lampo di vita in quegli occhi fatti di circuiti e plastica, Le parve addirittura di vederlo sorridere, cosa impossibile, ovviamente, dato che il droide era privo di labbra e muscoli facciali.
«Non è un difetto, Miss. È la scintilla. Sono certo che, quando avrà trovato il suo scopo, lo capirà. E sarà finalmente felice. Glielo auguro tanto, Miss.»
E quando pensava di aver visto tutto nella vita, 3D1 le mise una mano sulla spalla.


«Vediamo quello che vogliamo vedere.»
«Cosa intendi con questo?»
«Che, di contro, non vediamo ciò che non vogliamo vedere.»
«Vuoi arrivare al punto?»
«Le richieste dei Separatisti sono sempre state nebulose e ambigue. Millantavano discriminazioni che non esistevano. Dichiaravano di voler scendere al tavolo dei negoziati, ma in realtà sapevano che quei negoziati non sarebbero mai andati a buon fine perché erano decisi a non accettare nessuna mediazione, nessuna offerta. La loro non era un’alleanza, era un’invasione! Questa situazione si è trascinata troppo a lungo e ovviamente Palpatine ne ha approfittato.»
Regina sbuffò, poco convinta.
«Guarda poi come hanno agito i Jedi. Sono i Guardiani della Pace nella Galassia, giusto? Ebbene, quanto è durata la loro Pace quando davvero sono stati messi alla prova? Facile mantenere la pace quando non ci sono minacce reali e presenti!»
«La diplomazia funziona fino a un certo punto, non credi?» replicò Regina.
«Oh, beh: con questa mentalità non capisco come tu abbia fatto a rimanere nel Senato così a lungo. Tanto vale che imbracci un fulminatore e ti lanci in battaglia!»
La moglie di Danu iniziava a darle sui nervi. Un cameriere le passò accanto col vassoio carico di calici colmi e ne prese uno, tanto per tenere la bocca occupata. Scrutò gli occupanti della sala alla ricerca di un volto amico. Vide Bail conversare con Orn Free Taa e gli fece un cenno di saluto. Bail rispose, salutò velocemente il collega e attraversò la sala per andarle incontro. Regina non perse l’occasione.
«Scusami, un collega mi chiama.»
Si incontrarono a metà strada.
«Ciao. Grazie, non ne potevo più!»
«A chi lo dici! Meelee è davvero pesante: parla per slogan che ha imparato chissà dove ed è convinta di dover assolutamente condividere qualsiasi pensiero riesca a partorire da quella sua mente piccola come una nocciolina.»
«È solo in cerca di conferme. È molto giovane e ha forte soggezione di te. Credo, anzi, che voglia stupirti in qualche modo.»
«Beh, obiettivo centrato direi. Mi ha decisamente stupita!»
Ridacchiano come due liceali nelle ultime file.
«Siamo terribili, Bail, a parlar male dei colleghi e delle loro mogli!»
«Chi sta parlando male dei colleghi?»
«Non eri venuto a sparlare di Orn?»
Bail ridacchiò ancora.
«Rido, ma dovrei arrabbiarmi. Quel gigantesco Twi’lek si preoccupa della sua posizione all’interno del Senato.»
«Non mi dire? È ancora preoccupato per la Petizione? Se Palpatine volesse liberarsi di tutti i senatori che hanno firmato quella petizione, mezzo Senato si svuoterebbe!»
«Palpatine non è preoccupato dalla Petizione. Non c’è stato nessun seguito ed è rimasta sepolta da qualche parte. Di fatto il Comitato dei Lealisti ha cessato le sue funzioni quando si è dichiarato Imperatore.»
Regina bevve un altro sorso del suo champagne.
Bail le fece cenno con il capo e si spostarono verso il bordo della sala.
«Mi diceva Gal che avevate una pista.»
«Stiamo cercando di capire che fine ha fatto un pacco contrabbandato fuori Coruscant verso Antar 4.»
«Hai saputo cosa è successo in quel sistema?»
Regina lo guardò confusa.
«Ho sentito poco prima di venire qui. Tarkin ha fatto giustiziare e massacrare molti antariani, senza fare alcuna distinzione tra separatisti e lealisti.»
«A quanto pare l’Impero sta già ammucchiando fanatici e psicopatici. Quell’uomo è pericoloso!»
«Cercheremo di tenerlo d’occhio. Questo pacco di cui parli? Si sa a chi era diretto?»
«Non è chiaro. Parte del pacco, una bracciale in Kyber proveniente da Jedha, è stato ritrovato in un villaggio.»
«Cos’altro c’era nel pacco?»
«Non lo sappiamo. Sappiamo solo che qualcuno ha rischiato grosso per farlo uscire da Coruscant. Non sappiamo nemmeno se questa persona sia ancora su Antar 4. O se sia ancora viva.»
«Perché volete mettervi in contatto con questa persona?»
«Gal è convinto che alcuni dei partigiani lealisti si siano ribellati a Tarkin e che si stiano organizzando. Se così fosse, dobbiamo contattarli il prima possibile.»
Bail si accarezzò il mento, fissando il vuoto.
«È un po’ tirata, ma se c’è qualcuno che sta operando alle spalle dell’Impero, vale la pena capire se questo qualcuno è dalla nostra parte o no.»
Regina sorrise, sollevata.
«La vostra fonte non ha informazioni utili?»
«No. È un mercante d’arte e non aveva contatti su Antar 4 da prima della Guerra coi Separatisti.»
«Su col morale, Regina. È una buona notizia. Non siamo sconfitti, non ancora.»


Era uscita dall’appartamento della madre quasi di nascosto: Regina era a un aperitivo con altri senatori e non voleva essere ancora a casa quando fosse tornata. Il suo shuttle sarebbe partito da lì a due ore e si ritrovò a vagare nel Vecchio Mercato Galattico. Si infilò in un piccolo bar al livello 2 poco illuminato e quasi deserto. Si avvicinò al bancone, lontano dagli altri avventori solitari. Il barista fu subito da lei.
«Una birra, grazie.»
Si sedette sullo sgabello, il trolley davanti alle ginocchia, la testa china tra le spalle. Saranno due ore infinite. Arrivata la birra, ne trangugiò un lunga sorsata.
«Ves?»
Era tentata di ignorare la donna che la stava chiamando, ma quando se la ritrovò seduta accanto, non potè fare a meno di rispondere.
«Mon? Ciao! Scusami, sono immersa nei miei pensieri e non ti avevo vista!»
Funziona sempre.
Si guardarono, ammutolite per un secondo o due. Ves capì, in quella frazione di tempo, che l’amica d’infanzia era lì per lo stesso motivo suo: si stava nascondendo.
«Capisco. Come va?»
Mon la guardò con calore: era tra le dieci persone presenti al funerale di Goran, dieci settimane prima.
«Cosa vuoi, va. Tu?»
Mon grugnì, aggiustandosi sullo sgabello e finendo il bicchiere di liquore aranciato che aveva davanti.
«Sto imparando a camminare sulle uova, in questi giorni.»
«Immagino.» rispose Ves, prima di bere un altro lungo sorso di birra.
«Tua madre si sta dando un gran da fare per capire chi sta con chi.»
«La conosci: deve avere tutto sotto controllo.»
«Ma temo stia facendo troppe domande. Non è da lei essere così imprudente.»
Ves non sapeva cosa rispondere a quella osservazione, non le sembrava un atteggiamento tipico di sua madre, sempre così cauta e misurata.
«Va così male?»
Mon sospirò. Alzò la mano per richiamare il barista.
«Ti ordino un’altra birra?»
Ves fissò il suo bicchiere quasi vuoto.
«No, ti faccio compagnia. Cos’è il tuo veleno?» chiese, indicando il bicchiere vuoto con un movimento della testa.
«Lum.»
«Però, non pensavo che una signorina per bene come te bevesse certe cose.»
Ridevano mentre arrivava il barista.
«Due lum. Grazie.»
«Facciamo così: lascia qui la bottiglia.»
Mon la guardò, l’angolo della bocca incurvata in un sorriso complice.
«Ho due ore libere prima del mio volo: hai tutto il tempo di raccontarmi la merda che vi è piovuta addosso in Senato negli ultimi giorni.»


«E ti ricordi come ci rimase male Tay quando tu gli dicesti … cosa gli dicesti esattamente?»
La sua memoria tendeva a scivolare. E chi era questo Tay?
«Tay chi?»
Mon era rilassata e allegra, decisamente più del solito; temeva che si sarebbe addormentata lì in quel momento. Poi si rianimò.
«Kolma. Non ti ricordi? Quello del gelato! “L’ho leccato, quindi ora è mio!”»
«Ewwh! Sì, ora mi ricordo. Che idiota viziato!»
Mon roteò gli occhi verso l’alto.
«Beh, l’ho rivisto qui su Coruscant tempo fa. Lavora nella banca del padre. È decisamente migliorato rispetto a quando eravamo ragazzini.»
Mon sorrise sorniona e Ves le diede tanto di gomito.
«Mon, scandalosa! Ti ricordo che sei sposata!»
Mon ridacchiò.
«Allora, ti ricordi o no cosa gli dicesti?»
«Eccome se me lo ricordo! Fu il mio momento di gloria: da allora tutti i bambini del quartiere mi rispettarono di più.»
Ves fece una pausa, per dare più enfasi alla frase.
«Gli dissi: “Sei fastidioso e imbarazzante come un brufolo sul culo!”»
Scoppiarono entrambe in una risata sguaiata, i pochi avventori del locale si girarono a studiarle.
«Oh cielo! Come ho fatto a dimenticarmi questa frase! Credo che quella frase da sola sia stata l’inizio della fine del Regno del Terrore di Tay. E lui ne era consapevole.»
Ves si schernì.
«Che esagerazione. Non era un Regno del Terrore, non avevo paura di lui.»
Mon la guardò, sorseggiando l’ultimo dito di liquore dal bicchiere.
«Gli altri bambini ne avevano.»
«Ma era innocuo, era solo un pallone gonfiato. Le sue erano solo chiacchiere, non aveva il coraggio di torcere un pelo a un ratto.»
«Ciononostante gli altri bambini ne erano intimoriti. Conosceva i loro punti deboli, i loro segreti. Era subdolo, se li faceva raccontare, fingendosi amico. Alla fine aveva una rete di intelligence che a confronto la situazione attuale sembra un Luna Park! Mi meraviglio non sia entrato in politica.»
Ves si rigirò il bicchiere tra le dita, osservando l’ultimo sorso di Lum dondolare sul fondo.
«È così che funziona in politica ora? È questo che fai?»
Mon sbattè le palpebre, colta alla sprovvista. Si guardò intorno prima di rispondere, l’atteggiamento ora guardingo.
«Alcuni sono stati arrestati, ci hanno obbligato a prestare giuramento all’Imperatore, altrimenti venivamo accusati di Alto Tradimento.»
Ves sbuffò.
«Mia madre?»
«Tua madre è una vecchia volpe, ha giurato anche lei. E molti altri. Non so cosa sia successo a quelli che si sono rifiutati.»
Mon prese la bottiglia e sospirò accorgendosi che era vuota.
«Starete bene? Tu e mia madre, intendo.»
«Certo! Non preoccuparti. Siamo animali da Senato io e Regina, non ci metteranno spalle al muro tanto facilmente.»
Ves bevve l’ultimo sorso e si alzò.
«Bene, il tempo stringe, Mon.»
«Quando torni?»
Quando Ves non rispose, Mon si alzò.
«Hai almeno salutato tua madre?»
Si limitò a scuotere la testa.
Mon sospirò, prese le spalle dell’amica tra le mani e l’attirò a sé in un lungo abbraccio.
«Abbi cura di te.»
«Non dovrebbe essere difficile. Ci sono solo io.»


«Non è sopravvissuto nessuno?»
Bail si rigirò il bicchiere di vino in mano. Non ne aveva ancora assaggiato nemmeno un goccio. Sembrava non aver udito la domanda, oppure non voleva rispondere.
«Bail?» sussurrò Regina, comprendo la mano dell’uomo con la sua.
«Teller è fuggito. hanno catturato una trentina di sopravvissuti. Li stanno interrogando.»
Sospirò.
Regina si rilassò contro lo schienale della sedia.
«Teller e i suoi erano militari ben addestrati, in gamba. Guarda cosa hanno ottenuto. Eppure sono stati sconfitti. Ero veramente convinto che ce l’avrebbero fatta.»
«Teller è ancora vivo, non è detta l’ultima parola.»
«No, Regina, la cellula ribelle di Teller ormai è perduta. Senza Anola, Hask e Cala non riuscirà a organizzare una nuova squadra; il carisma non basta.»
«Almeno quella serpe velenosa di Rancit ha avuto il fatto suo. Teller ha sbagliato a fidarsi di lui.»
«La sconfitta di Teller non c’entra con Rancit e la sua smodata ambizione. Anzi, ha fatto bene a sfruttarla a suo vantaggio. Ma era talmente concentrato sulla sua battaglia, forse anche accecato dal desiderio di vendetta contro Tarkin, non saprei.»
La voce di Bail si spense.
«Erano entrambi accecati dal desiderio di rivalsa su quell’uomo.» disse Regina, disgustata.
Bail trangugiò il vino e si alzò.
«In ogni caso, è finita. La sconfitta di Teller ha scoraggiato diversi tra i nostri alleati e gli entusiasmi si sono spenti. Dopo quello che ha combinato su Antar 4 non credo che Tarkin ci andrà leggero con i prigionieri.»
Regina lo precedette davanti alla porta d’uscita.
«Aspetta Bail, non possiamo perdere la speranza. Riusciremo a riorganizzarci, riusciremo a …»
«Regina, non c’è più niente da fare, non capisci? Siamo una decina di senatori che sussurrano nell’ombra, spaventati. Il popolo non si fida di noi, e forse ha ragione: giurando fedeltà a Palpatine abbiamo tradito le loro speranze. Invece di unirci a loro nella lotta, ci siamo sottomessi, abbiamo piegato il ginocchio all’Imperatore e ora vorremmo chiedere a questa gente oppressa e maltrattata di lottare e morire per noi?»
«Abbiamo dovuto piegarci per sopravvivere! Guarda cosa è successo agli altri! In carcere non saremmo serviti a nulla. Nemmeno martiri saremmo stati, solo dei senatori indolenti e traditori.»
Bail fece due passi indietro e si sedette sul divano. Regina lo seguì.
«Anche gli Jedi ci hanno abbandonato. Sono scomparsi, non so più nemmeno se sono ancora vivi, se c’è ancora qualcuno là fuori disposto ad aiutarci. È stato solo un sogno.»
Bail si prese il volto tra le mani.
Regina gli si strinse accanto.
«Non è stato solo un sogno. Il nostro tempo verrà, il tempo della Ribellione verrà.»
Bail alzò la testa e la guardò.
«Come fai a essere così sicura? Cosa ti da così tanta speranza?»
«Gli uomini come Palpatine sono solo tiranni temuti e odiati. Nessuno lo ama, nessuno lo rispetta. Hanno solo troppa paura di lui, del suo potere. Si circonda di arrivisti e megalomani, uomini senza morale, senza onore, disposti a tutto pur di fare carriera e arraffare il più possibile. Guarda Rancit, guarda Tarkin. Non ci metteranno molto a rivoltarsi l’uno contro l’altro e alla fine si ammazzeranno tra loro. E Palpatine prima o poi si ritroverà solo e farà un passo falso.»
Bail sospirò, ancora dubbioso. Regina continuò, prendendogli una mano nella sua.
«Non accadrà oggi o domani e forse nemmeno tra un anno. Ma so che Palpatine cadrà e con lui il suo Impero.»
Bail la fissò, ma il suo sguardo sembrò oltrepassarla.
«Temo che non sopravviveremo abbastanza a lungo per vedere la fine dell’Imperatore.»
Regina sorrise, serena.
«Non per questo smetteremo di lottare.»


Ves era stanca. Stava vagando tra sistemi sconosciuti e irrilevanti da una settimana. Sui documenti di viaggio la sua nave trasportava minerali e metalli per edilizia civile, una copertura abbastanza innocua che non destasse troppa curiosità quando era costretta ad attraccare in qualche spazioporto per rifornimenti e sgranchirsi le gambe.
Aveva tracciato la rotta per il sistema di Sullust, senza pensarci. Aveva bisogno di scendere da quella nave e dormire in un letto vero per una notte o due e mangiare cibo decente e Sullust, sebbene non fosse un pianeta lussureggiante e accogliente, rimaneva uno dei luoghi più sicuri e tranquilli per chi, come lei, voleva evitare l’Impero.
Quando il computer di bordo le segnalò che si trovavano nelle vicinanze, riprese i comandi e uscì dall’iperspazio.
Lo spazioporto era immerso nelle attività frenetiche della mattina. Stando all’orologio planetario, erano le dieci, orario perfetto per fare colazione.
Raccolto lo stretto necessario in un piccolo zaino, lasciò la sua nave ormeggiata al molo, raggiunse la stazione e da lì salì su un trasporto che la portò nella città più vicina.
Prima di trovare una stanza da qualche parte, decise di fermarsi in un locale per mangiare un boccone e dare un’occhiata alle notizie locali, così, perché non si può mai essere sicuri a volte.
Fece colazione, scambiò qualche parola con il gestore e, verificato che la situazione in quei giorni fosse calma, si fece indicare un posto dove poter prendere una camera a buon mercato.
Il pomeriggio lo spese facendo un lungo bagno caldo e quindi una meritata dormita.
Quella sera si ritrovò in un locale non molto distante dalla locanda dove alloggiava. Aveva provato a fare due passi nel piccolo centro, ma i negozi erano tutti chiusi e c’era poco da vedere. Sullust era un pianeta vulcanico, con vaste e brulle pianure di terra nera e spoglia. Qua e là oasi di vegetazione crescevano lungo i corsi d’acqua e sulle rive degli oceani. Ma nella zona dove si trovava, Ves aveva visto solo grandi distese nere e desolate. In lontananza aveva scorto grappoli di luci tremolanti, l’orizzonte reso irregolare da rilievi poco importanti. Il traffico di veicoli era assente, la poca gente che aveva incrociato si muoveva a piedi.
Non le dispiaceva starsene seduta al bancone a bere una birra, sola, senza nessuno con cui forzare una conversazione fasulla. Cercò ci concentrarsi sulle cose semplici: il prossimo pianeta, il prossimo carico. Cose così. Aveva imparato da qualche anno a non pianificare troppo.
Ma a volte il suo istinto lavorava senza che lei ne fosse cosciente. Si rese conto dopo qualche secondo che tutti i suoi sensi erano concentrati su un giovane operaio, almeno sembrava un operaio, da poco entrato nel locale. Non lo vedeva, ma l’aveva avvertito, sapeva che era lì, seduto al bancone come lei, qualche sgabello più in là, curvo sul suo bicchiere. Due cose di quel ragazzo spiccavano alla sua attenzione: la prima, che il ragazzo aveva i capelli rossi, cosa rara, a meno di trovarsi su Chandrila; la seconda che, sebbene all’apparenza sembrasse farsi i fatti suoi, continuava a lanciare occhiate veloci e furtive all’enorme specchio dietro il bancone.
Lo fece anche lei, più per reazione che per reale interesse. Lo specchio non era perfettamente perpendicolare, ma leggermente inclinato, così da mostrare cosa si trovava sotto i tavoli del locale. E vide ciò che il ragazzo stava vedendo: un gruppetto di uomini, anche loro sembravano operai, che indossavano stivali di pelle neri con punte in duracciaio.
Merda.
Scansionò il locale, alla ricerca di porte non marcate. Ne individuò un paio.
Cinquanta e cinquanta.
Diede un’ultima occhiata alla birra bevuta a metà davanti a sé.
«Ehi, c’è un bagno qui?» chiese al barista, alzandosi.
«Certo. La porta in fondo al locale.»
Ves andò sicura sulla porta a destra, quella sul lato del bancone. Mentre varcava la soglia, fece finta di non sentire la voce del barista che l’avvertiva di aver sbagliato porta.
Si ritrovò in un piccolo corridoio scarsamente illuminato da piccole feritoie appena sotto il soffitto, da un capo uno sgabuzzino aperto, dall’altro un’altra porta.
Si precipitò verso quest’ultima e si ritrovò in una stanza dominata da una piccola tavola al centro e scaffali mezzi vuoti alle pareti. Un angolo della stanza era nascosto dagli scaffali, lo raggiunse e vide che c’era un’altra porta, piccola e non automatica, mascherata da alcuni ganci e qualche giacca appesa.
Avvertì dei passi provenire dal corridoio. Si rannicchiò dietro le mensole, premendo l’intero peso del corpo contro la parete, un occhio all’ingresso della stanza.
Era il ragazzo del bar. Si guardava intorno e alle spalle. Sembrava di fretta.
«Chi cazzo sei?» gli chiese, uscendo dal suo angolo.
Il ragazzo alzò le mani. Aveva un piccolo fulminatore alla cintura, ma non lo estrasse. Strano.
Quando vide che non era armata, abbassò le mani.
«Nessuno.» rispose.
«Quegli imperiali, cercano te?»
«Sono appena atterrato su questo pianeta. Erano già qui quando sono entrato.»
«Non significa nulla.»
Il ragazzo la fissò strizzando gli occhi.
«Magari cercano te.»
Ves valutò l’ipotesi, ma la scartò subito: aveva fatto un lavoro meticoloso per rimanere sotto i radar e non attirare l’attenzione. Almeno fino a quel momento.
«Questo sistema è una base sicura per l’Alleanza e i suoi simpatizzanti. Potrebbero essere qui per mille motivi.»
«Vediamo di non dare loro un motivo in più per essere qui.» tagliò corto il ragazzo. Fece due passi e si mise a esaminare la seconda porta.
«Ci deve essere un comando da qualche parte. Cerca sotto quelle mensole.»
Ves iniziò a tastare con le mani tra barattoli e contenitori.
Non trovarono nulla, iniziarono a guardare entrambi in ogni direzione.
Gli occhi del ragazzo si illuminarono. Si avvicinò al lavello sulla parete opposta, premette entrambi i pulsanti sopra il bocchettone dell’acqua. La porta davanti a loro scattò, aprendosi di un paio di centimetri.
«Un lavello senza scarico non ha senso, che dici?» disse il ragazzo passandole davanti e aprendo la porta del tutto. Ves vide che, sotto la vasca, non c’erano in effetti tubature.
«Hai occhio» gli concesse.
Lo seguì oltre l’uscita, si ritrovarono in un passaggio ancora più angusto e umido. Il ragazzo tirò la porta che si richiuse pesantemente.
«Non vedevo una porta battente da quando ero bambina» osservò Ves.
«Vieni dal Nucleo.»
«Da cosa lo deduci?»
«Nell’orlo esterno si usano ancora le porte battenti. Sono più economiche.»
Il sorrisetto furbo del ragazzo si spense subito, sembrava in ascolto. Chiuse gli occhi, prese un profondo respiro.
«C’é del trambusto nel locale. Dobbiamo muoverci.»
Le passò davanti e iniziò a penetrare nell’oscurità che si snodava alle loro spalle.
«Sei un Jedi» bisbigliò Ves, raggiungendolo.
Il ragazzo continuò a camminare senza guardarla. Raggiunsero degli scalini che scendevano di qualche metro.
«Siamo sotto il livello della strada ora» dedusse il ragazzo.
Ves ignorò l’osservazione, continuando a pressarlo.
«Quei tizi con gli stivali neri non stanno cercando me, stanno cercando te!»
«Sono gli Inquisitori che danno la caccia ai Jedi, non gli imperiali.»
«Quindi sei un Jedi?»
«Sono abbastanza furbo da non rimanere nella stessa stanza quando ci sono gli uni o gli altri.»
Ves si fermò.
«Come ti chiami?»
Ancora nulla.
«Anche mio figlio era un Jedi. Era un’apprendista, a dire il vero: si trovava al Tempio Jedi durante l’attacco.»
Il ragazzo fece un paio di passi prima di girarsi verso di lei. Qualcosa nel suo sguardo le spezzò il cuore.
«Cal. Il mio nome.»
«Io sono Ves. Come hai fatto a sfuggire all’Ordine 66?»
Cal abbassò lo sguardo.
«Il mio Maestro …»
«Ti ha protetto?»
Cal annuì.» Lui non ce l’ha fatta.»
«Mi spiace.»
Rimasero fermi per un secondo. Poi Cal riprese a camminare.
Dopo qualche metro trovarono altre scale che risalivano; alla fine, una porta che dava su un piccolo magazzino. Erano due vie più in là rispetto al locale. Rimasero accovacciati, spiando la strada attraverso delle fenditure nella parete.
«Come si chiamava tuo figlio?»
«Goran. Me lo portarono via. Ho cercato di contattarlo, ma venivo continuamente respinta. Non l’ho più rivisto. Vivo.»
Cal la guardò, lo stesso sguardo triste di prima.
«Non ricordo mia madre. Ricordo il suo profumo, ma nient’altro. Neanche il suo nome.»
Ves rimase in silenzio per qualche secondo, non trovando nulla da dire.
«Dobbiamo tornare allo spazioporto» disse, passandosi una mano sulla guancia umida e tirandosi in piedi.
Cal si raddrizzò, lo sguardo triste scomparso. Uno squittio agitato attirò la sua attenzione e si chinò a terra.
«BD-1! Da che parte, amico?»
«Cos’ha detto?» chiese Ves.
«Gli imperiali si sono divisi: alcuni stanno risalendo il cunicolo; altri sono usciti in strada. Ci stanno cercando.»
«Come hanno fatto a scoprirci?»
«Non saprei, forse non siamo stati così discreti come pensavamo.»
Ves sbuffò impaziente.
«Cosa ci fanno degli imperiali su questo pianeta? E perché travestirsi da locali? Pensano che la gente non sappia riconoscerli?»
«Un forestiero in fuga forse no.»
Ves valutò la cosa per un attimo. Cal continuò.
«Andiamo, dobbiamo raggiungere lo spazioporto.»
«Ho la mia roba alla locanda.»
«Dimentica la locanda. Dobbiamo sbrigarci.»
«Ci sono dieci chilometri da qui al porto. Ci raggiungeranno.»
«Dici?»
Così dicendo, Cal uscì dal magazzino, mentre il piccolo droide che aveva chiamato BD-1 gli si arrampicava sulla spalla come un pappagallo.
Ves lo seguì lungo i vicoli bui del villaggio fino a uno speeder.
«È tuo?»
«No» fece Cal, salendoci sopra.
«Salta sù.»
Ves si guardò intorno incredula, ma non se lo fece ripetere due volte.
Attraversarono la landa desolata e scura nel buio più totale.
«Ci vedi?» urlò Ves alle orecchie del ragazzo.
«Sempre.»
Si ritenne soddisfatta e si rilassò, stringendosi più forte. Chissà quanti anni aveva? Venti? Venticinque?
Raggiunsero la loro destinazione in pochi minuti.
«Hai una nave?» gli chiese Ves.
«No. Ero sceso su un trasporto» rispose vago Cal.
Ves non volle indagare.
«Se ti serve un passaggio, ho una cuccetta libera sulla mia nave. E il tuo droide si può ricaricare.»
«Non vorrei metterti nei guai …» esitò lui.
Ves fece una smorfia.
«Per quello è tardi, direi.»
Cal non rispose, sorrise debolmente, improvvisamente timido.
«Vieni, meglio lasciare il pianeta in fretta.»


«Tu sei uno Jedi?»
Il ragazzo si girò verso di lei. La treccia che gli pendeva sopra la spalla destra si mosse e Ves ebbe l’impressione, durata un attimo, che fosse una creatura viva.
«Non ancora» rispose il ragazzo, freddo.
Raddrizzò le spalle e congiunse le mani dietro la schiena.
Ves rimase ferma, in attesa che lui continuasse la conversazione. Era abituata, in altre occasioni, che le persone le rivolgessero delle domande a loro volta. Ma il ragazzo rimaneva fermo e silenzioso, sguardo privo di espressione. La cosa la innervosì.
«Io sono Ves. Mio padre è il Comandante Janov Graiff. Mia madre è la Senatrice Regina Graiff.»
Il ragazzo che non era ancora un Jedi non sembrava impressionato.
«Sei qui per parlare con loro?»
Il ragazzo ondeggiò appena.
«Il mio Maestro è dietro quella porta con i tuoi genitori.»
«Accompagni sempre il tuo Maestro durante queste visite?»
Il ragazzo sembrò valutare la domanda.
«Non ci separiamo mai.»
«E come mai non sei dentro con lui, ora?»
«Mi ha detto di attenderlo qui e di non muovermi.»
«E tu fai sempre quello che ti dice?»
«Assolutamente.»
Ves studiò il ragazzo. Aveva forse quattro, cinque anni più di lei, l’aria un po’ tonta e ordinaria. Non assomigliava minimamente all’idea che si era fatta dei Cavalieri Jedi. Si convinse che quel ragazzo non sarebbe mai diventato uno Jedi e che sarebbe stato meglio fosse entrato nei Corpi Speciali.
Annoiata, raggiunse la porta e appoggiò la mano sulla piastra di apertura. Non successe nulla.
«Credo abbiano bloccato la porta per non essere disturbati.» disse il ragazzo dietro di lei.
«L’ho capito. È casa mia, so come funzionano le porte qui.»
«Funzionano in maniera molto simile a quelle nel Tempio Jedi.»
Ves si morse il labbro inferiore, gonfiando appena le guance. Quindi tornò indietro.
«Come ti chiami?»
«Lathan.»
«Ce l’hai la spada laser?»
Il ragazzo si scostò da lei, portandosi la mano alla cintura.
«Posso vederla?»
«Non credo sia sicuro attivarla qui.»
«Non la sai usare?»
Il ragazzo per la prima volta mostrò emozione. Un lieve rossore gli dipinse le guance e strinse le labbra, fissandola.
Dal nulla, spuntò una lama di fredda luce gialla, accompagnata da un ronzio sordo.
Istintivamente, Ves allungò entrambe le mani.
«Attenta, non vorrei tagliarti un dito.» disse il ragazzo, allontanando la lama.
«Come mai è gialla?»
Aveva già visto spade laser prima di allora: quella viola di Mace Windu e quella verde di Yoda, ma mai così da vicino.
«È il colore del cristallo kyber che ho usato per costruirla.»
Ves continuava a fissare la lama di luce.
«Cos’è un cristallo kyber?»
«È il cristallo che alimenta le spade laser. È vivo e molto potente.»
«È magico?»
«Beh, in un certo senso. È l’elemento più raro dell’intera Galassia e il più prezioso. È connesso con la Forza ed è indistruttibile.»
La porta davanti a loro si aprì e la lama scomparve.
«Lathan, la spada non è un giocattolo» lo riproverò l’uomo in tunica che uscì dalla porta.
Il ragazzo si scusò e face due passi indietro.
Il Jedi incrociò le braccia davanti al petto e si girò verso i genitori di Ves dietro di lui.
«Vi saluto. Io e il mio padawan siamo diretti nel sistema di Onderon.»
«Fate buon viaggio.»
I due Jedi si piegarono in un breve inchino ai suoi genitori e a lei e uscirono dalla sala.
Ves corse alla vetrata per osservare la loro discesa nel turboascensore.
«Hai fatto amicizia con il giovane apprendista del Maestro Munn?»
«Non proprio, papà.»
E poi aggiunse, mentre gli trotterellava incontro.
«Mi compri una spada laser?»


«Pensi che ce la faremo?»
La domanda sembrava innocua, ma il tono tradiva preoccupazione.
«La prudenza non è mai troppa.»
Cal si sporse in avanti sulla cloche, osservando in ogni direzione.
«Siamo lontani dal Nucleo qui. Ci sono poche stelle.»
«Non siamo tanto lontani in realtà, ma siamo sul ramo corto della Galassia. Qui i sistemi abitati sono pochi.»
«Intendi nasconderti su un piccolo pianeta sconosciuto per un po’.»
«L’idea era quella. Sto aspettando che il computer di bordo carichi le mappe e poi decideremo la nostra destinazione.»
Cal continuò a fissarla.
«Che hai, Jedi? Non ti fidi di me?»
«Per quanto tempo?»
Ves ammise tra sé che non sapeva cosa rispondere.
«Devi andare da qualche parte?»
Il ragazzo scosse la testa: ovviamente no.
«Senti, staremo il tempo necessario per capire cosa fare. Speravo di farlo su Sullust, ma quella opzione è bruciata. Ci sceglieremo un bel posticino un po’ fuori mano dove rimanere tranquilli e riorganizzarci.»
Il computer segnalò che il caricamento delle mappe era terminato.
«Ecco qui, la Luna di Codia. Bel posticino. Tante fattorie, allevano reek principalmente.»
«Mi porti a spalare letame, insomma» disse Cal con una smorfia divertita.
«Devi ammettere che è un bel posto per nascondersi. È un settore neutro, non si sono schierati né con l’Impero, né con l’Alleanza. Direi che è il posto ideale.»
«Finché non scopriranno che sono un Jedi.»
Ves gli fece l’occhiolino.
«E noi terremo la bocca chiusa. Allora, che ne dici?»
Cal abbassò la testa tra le spalle, sospirando.
«Non ho molta scelta mi pare.»
Ves sorrise.
«Vedrai, non te ne pentirai: andiamo sulla luna, tiriamo il fiato qualche giorno, decidiamo il da farsi e poi si riparte.»
Gli diede una pacca sulla spalla.


Erano sulla Luna di Codia da un paio di mesi. Prima di allora non si era mai fermata così a lungo nello stesso luogo: il più delle volte rimaneva due giorni galattici standard, il tempo per trovare del carico o dei clienti da trasportare, e poi via, di nuovo, verso un’altra destinazione.
Aveva trasportato di tutto: grano, caffè, persino kyber una volta (molto poco e solo quella volta); una volta trasportò uova fecondate di porg verso Onderon. Persone ne aveva accompagnate poche, ma sempre ribelli che volevano rimanere sotto i radar o giovani che volevano unirsi all’Alleanza.
Si stava abituando ai periodi di buio, quando Codia era dietro la gigante gassosa e attraversavano la lunga “Notte Fredda”, sette giorni in cui non vedevano la luce della stella e si dedicavano alle attività lente, come la raccolta e l’essiccazione del fieno per i reek, la fabbricazione di candele, la riparazione dei veicoli e delle macchine da agricoltura. In quel periodo, i reek dormivano molto, accudivano i cuccioli, mangiavano meno e in genere non li vedevi molto in giro.
Nei periodi di normale alternanza giorno/notte, avevano lunghe ore di luce, in cui la stella oscillava nel cielo senza mai tramontare per quasi quaranta ore, mentre i periodi di buio non superavano le quattro ore. Le finestre delle case erano dotate di oscuranti di legno o stoffa pesante. Lei aveva preso l’abitudine di dormire qualche ora tra un turno di lavoro e l’altro e ormai non aveva più difficoltà ad addormentarsi o a svegliarsi.
Cal si era abituato quasi subito senza alcuno sforzo apparente. Immaginava che ci fosse riuscito grazie al suo addestramento Jedi.
Avevano preso un paio di stanze presso una grande azienda agricola che si occupava di “allevare” i reek, il che consisteva in tre attività principali: coltivare la vegetazione di cui i reek si nutrivano; monitorare i branchi nei loro spostamenti e durante la “Notte Fredda”; catturarli per consegnarli ai mercanti. I reek erano i mammiferi più grandi sul piccolo pianeta, per cui non avevano predatori. Per impedire che la popolazione crescesse troppo, venivano praticati rigidi controlli sugli esemplari adulti, con frequenti sterilizzazioni. Senza contare l’esportazione dei maschi che avevano superato una certa età. Ma Ves preferiva non pensare a quella parte del loro lavoro, perché spesso i reek finivano in arene da combattimento, dove venivano nutriti con dieta carnivora per aumentarne l’aggressività. L’aspettativa di vita dei maschi che venivano esportati era bassissima. Molti veterinari sul pianeta erano obiettori e si rifiutavano di curare i maschi adulti destinati ad altri sistemi. Ma spesso, soprattutto gli allevatori e mercanti senza scrupoli, falsificavano i certificati e li spedivano lo stesso. Nella maggior parte dei casi, i reek finivano sul mercato nero, e lì non si sapeva che fine avrebbero fatto.
Era riuscita a farsi assumere come meccanico: si occupava del monitoraggio degli animali, riparava i mezzi agricoli e i veicoli, faceva anche manutenzione degli scarsi dispositivi tecnologici, quasi sempre di semplice intrattenimento. Cal era bracciante e faceva praticamente tutto: dalla cattura e trasporto dei capi, al lavoro nei campi, ai lavori di meccanica più pesanti. Era cauto e cercava di non usare mai i suoi poteri, ma a volte si fermava a calmare una femmina reek che stava partorendo con difficoltà o domava con facilità i maschi più esuberanti.
«Allora? Ti va di venire fino in città e farci una bevuta? È l’ultimo tramonto che vedremo per sette giorni, i ragazzi volevano fare qualcosa.»
Ves era china sul tavolo da lavoro, impegnata in un ultimo controllo sugli olocom modificati per il monitoraggio del bestiame: erano sul finire dell’estate planetaria e c’erano parecchie cucciolate da seguire.
«Cal che dice?» chiese senza girarsi.
Loola sbuffò.
«Non gliel’ho chiesto. Lo sto chiedendo a te.»
Ves sorrise.
«Non vuoi invitarlo?»
Quando erano arrivati in azienda due mesi prima, Loola si prese subito una bella cotta per Cal, e si vedeva. Ma lui, da vero Jedi, l’aveva ignorata. Dopo un mese passato a fargli gli occhi dolci, Loola ci aveva rinunciato e non gli rivolgeva neanche più la parola. Non che Cal fosse antipatico o asociale, anzi: era cordiale con tutti e parlava con tutti, non rifiutava mai aiuto quando qualcuno glielo chiedeva, a volte anche prima che glielo chiedesse. Ma con le donne era schivo, specialmente con le sue coetanee. Ves pensava che non avesse senso mantenere il rigido codice monastico Jedi, ma Cal era molto legato alle vecchie tradizioni, forse per rispetto verso il suo defunto maestro, forse per nostalgia di tempi passati.
«Qui ho finito. Sento Cal, penso gli farà piacere venire. Ci vediamo a casa fra dieci minuti?»
Loola annuì e Ves uscì dalla rimessa. Raggiunse Cal che stava controllando gli speeder.
«Ciao! È tutto il giorno che non ci si vede. Ti va di raggiungere gli altri in città per una bevuta?»
«Ves! Scusami, sono stato in giro, ho controllato tutte le torrette e i nidi. I cuccioli sono una meraviglia.»
«Sì, sono dolcissimi. E molto forti anche!»
Cal si appoggiò allo steccato, guardando il caldo e rosso disco del sole che scendeva verso l’orizzonte quasi piatto.
«Potrei stare qui per sempre. Questo pianeta è così pacifico.»
«È vero, credo di non essere mai stata tanto serena in tutta la mia vita.»
Cal la guardò, un velo di tristezza negli occhi.
«Nemmeno io.»
«Se rimani qui, dovrai abbandonare la Via, sposarti, mettere su famiglia.» lo canzonò.
Il ragazzo fece una smorfia contrariata.
«Non è vero: ci sono tantissime persone che lavorano qui e non sono sposate.»
«Lo faresti? Rinunciare alla vita dei Jedi e rimanere qui ad allevare bestiame?»
«Perché no? È la vita ideale. Qui è come se l’Impero non esistesse, non si parla di politica, di battaglie. Qui è tutto più semplice: si lavora, si coltiva la terra, su curano gli animali. Mi piace arrivare a sera, stanco, sporco, sudato. Mi fa sentire vivo.»
Cal sorrideva, ed era un sorriso che le riempiva il cuore. Amava quel ragazzo, con tutto l’amore che non aveva potuto dare al proprio figlio.
«Siamo in due.»
Rimasero così, occhi negli occhi, per qualche istante. Poi Cal sembrò turbarsi e volse lo sguardo verso l’orizzonte.
«Cosa c’è?»
«Sento qualcosa. Una mamma soffre. Ma c’è dell’altro che …»
Senza finire la frase, inforcò uno speeder, diede a Ves il tempo di salire e partì verso la bassa formazione rocciosa dove molti reek con i cuccioli andavano a trascorrere il breve letargo.
Arrivarono in un’area brulla, solo qualche cespuglio e fili d’erba gialla coprivano il terreno rossastro. Scesero dallo speeder che Cal nascose sotto un cespuglio più rigoglioso degli altri. La mano di Cal andò istintivamente alla cintura, dove però la sua spada laser non c’era più. Al suo posto, un fulminatore. I braccianti ne portavano sempre qualcuno, per difendersi e difendere il bestiame da bracconieri e ladri. Avvertivano un lamento bovino provenire dalla bassa gola davanti a loro. Si avvicinarono guardinghi. La femmina di reek muggiva disperata, Ves si sentì gelare il sangue. Cal chiuse gli occhi e si mise “in ascolto”, così almeno immaginava Ves.
«Cosa senti?»
«L’hanno ferita. Ma c’è anche qualcos’altro.»
«Chi? Bracconieri? Stava difendendo i cuccioli?»
Cal alzò le spalle. Probabile.
Poi accadde tutto molto velocemente. Cal spinse Ves lontano, facendola ruzzolare a terra, mentre con il fulminatore sparava tentando di colpire una figura fasciata di nero che volteggiava sopra la sua testa. Nella quasi oscurità che era scesa rapidamente dopo il tramonto del sole, Ves non vedeva altro che la spada laser rossa brandita dall’individuo che li aveva attaccati. Il familiare ronzio dell’arma le fece venire i brividi e le si fermò il fiato in gola. Avrebbe voluto correre in aiuto del ragazzo, ma sapeva che si sarebbe solo fatta ammazzare. Si trascinò carponi dietro una cumulo di rocce poco lontano, continuando a osservare il duello in corso.
Cal era abile, ma era evidente che la sua arma ideale era un’altra. Ogni tanto alzava la mano sinistra e la figura nera veniva scossa come una bambola o la lama rossa deviata. Per un attimo pensò di vederci doppio, poi si rese conto che le lame erano due. Con un abile uso di fulminatore e Forza, Cal riuscì a separare l’impugnatura centrale e impadronirsi di una delle due metà. Con un paio di fendenti fece indietreggiare l’avversario, che perse la sua spada e cadde su un ginocchio. Rimasero così, Cal in piedi, il nemico accovacciato, entrambi ansimanti. Si studiavano, i volti sudati illuminati dalla luce rossa della spada. La figura era una donna, lineamenti duri, carnagione chiarissima, avvolta in una tuta e mantello entrambi neri, una divisa da Inquisitore che lasciava scoperto solo il viso. L’elsa della spada della donna, ora inerme, volò nelle mani di Cal.
«Come mi hai trovato?»
La donna non rispose.
Cal accese anche l’altra spada e ora le brandiva entrambe, come cesoie, intorno al collo della donna.
«Ne arriveranno altri?»
La donna sorrise. Ves si sentì rabbrividire. Guardò il volto di Cal, teso, sudato, sofferente.
«So che vuoi farlo. Fallo.» disse la donna. Ves ebbe un sussulto.
«No!» disse, trattenendo a stento il panico.
«Chi è questa donna? Tua madre? Tua moglie? Pensi che lei capisca? Io ti conosco, percepisco il tuo potere, la tua ira, i tuoi demoni. Lasciati andare, liberali.»
Ves non capiva perché quella donna lo stesse stuzzicando così. Davvero non le importava di morire? Cal era una maschera di dolore, come se si sforzasse di trattenere un urlo.
Dopo un tempo che sembrò infinito, Cal spense entrambe le spade. Piombarono nel buio, la volta celeste sopra di loro una spruzzata di stelle tremolanti.
Ves estrasse la torcia e corse verso la gola.
La femmina di reek era riversa su un fianco, immobile e silenziosa, un profondo taglio lungo l’addome, gli intestini parzialmente riversi sul terreno. Corse da lei, ma non c’era chiaramente più nulla da fare: gli occhi vitrei e senza vita erano spalancati in un’eterna espressione di terrore e dolore, la lingua penzolante fuori dalle fauci spalancate. Nella scarsa illuminazione della torcia, capì che le viscere della povera creatura erano i suoi piccoli mai nati, ma già formati.
Cal la raggiunse.
«Avrebbe partorito tra poco.» disse Ves con voce rotta. Poi le tornò in mente perché erano lì.
«Dov’è la tipa?»
«L’ho lasciata andare.»
«Chiamerà rinforzi.»
«Sicuramente.»
C’era sangue dappertutto lungo la gola, sulle rocce, sulla sabbia. Poi uno dei corpicini parve muoversi. Ves sbatté le palpebre un paio di volte per liberarli dalle lacrime. Non si era sbagliata, uno dei cuccioli era vivo, ancora avvolto nella placenta. Cal, più veloce di lei, riaccese la spada laser e lo liberò della membrana e del cordone ombelicale. Il cucciolo emise un verso di sollievo e già tentava di alzarsi in piedi.
Ves gli si inginocchiò accanto.
«Calmati piccolo, ora ci siamo noi.»
Poi continuò, rivolta a Cal.
«Dobbiamo portarlo alla fazenda, dargli una lavata, chiamare il veterinario.»
«E come facciamo? Pesa troppo, non riusciremo a trasportalo sul motospeeder.»
Ves tornò la sua attenzione sul neonato.
«Povero piccolo.»
«Non toccarlo troppo, gli lascerai il tuo odore addosso. Dobbiamo attirare un’altra femmina qui e sperare che lo prenda nella sua cucciolata.»
«Dici che sia possibile?»
Cal sorrise.
«Con un poi di convincimento, magari …»
Ves spense la luce, rimanendo accanto al piccolo. Cal si allontanò di qualche passo. Lo sentiva respirare lentamente e profondamente.
Il cucciolo continuava a lamentarsi, affamato. Ves avrebbe voluto accarezzarlo e calmarlo, ma capiva che Cal aveva ragione, doveva stare attenta a non imprimere il suo odore umano su di lui. il reek si aggirava intorno al corpo senza vita della madre, pressando il piccolo muretto contro il ventre.
Si avvicinò a Cal.
«Povero piccolo, sta cercando le mammelle.» disse in un soffio.
«Sssh, ci siamo quasi.» la interruppe Cal.
E come se fosse stata chiamata, ecco un’altra femmina di reek, seguita da un paio di piccoli, entrare nella gola dalla direzione opposta. Individuò subito il cucciolo orfano, si strofinarono i musi. Poi la femmina annusò e ispezionò i cadaveri. Ves distolse lo sguardo.
«Cosa faremo ora?»
«Ci penserà lei: mangerà la placenta, lo allatterà e poi sarà suo figlio.»
«Non sto parlando dei reek, sto parlando di noi. Di quella tizia. Di te. Cosa facciamo? Non possiamo rimanere qui.»
Cal la guardò.
«No, non possiamo.»
Ves non aggiunse altro, si strinse al braccio del ragazzo, tremante.
«Era troppo bello per essere vero.»
«Già.»
Rimasero in silenzio, osservando il rituale che si svolgeva davanti ai loro occhi: la femmina di reek stava lavando con cura il piccolo orfano strofinando il muso sul suo e leccandolo ovunque, mentre questi si attaccava a un seno. Gli altri cuccioli lo scrutavano attenti e quando, con uno sguardo della madre, capirono che non c’era pericolo, si avvicinarono al nuovo arrivato. Ci furono brevi momenti di gioco. Infine, con un verso autoritario e materno, la madre segnalò ai cuccioli che era il momento di andare.
Quando la famiglia si fu allontanata, Cal e Ves uscirono dal loro riparo, strofinandosi i pantaloni.
«Terrai le spade?»
«No. Le distruggerò. È arrivato il momento di costruirmene un’altra.»
Ves annuì.
Tornarono allo speeder e fecero ritorno alla fazenda.
«Tu cosa farai?» le chiese Cal prima di salutarsi e rientrare nei loro alloggi.
«Non ne ho la più pallida idea.»
«Non possiamo starcene in disparte ancora per molto. La fuori qualcosa sta accadendo.»


«Non hai mai cercato di vendicarti? Di Lord Vader intendo.»
«Vendicarmi? E perché mai?»
«Per aver ucciso tuo figlio.»
Ves cambiò posizione: quella cassa era diventata improvvisamente scomoda. Si erano allontanate dal fuoco per non dover chiacchierare con gli altri. Non c’era molto di cui parlare, in ogni caso: erano arrivati da ogni angolo della Galassia, umani e non. La maggior parte aveva quello sguardo smarrito di chi ha perso tutto e non sa bene cosa fare della propria vita, giovani e meno giovani, uomini e donne. Qualche fanatico parlava senza sosta, ognuno con le sue teorie su come bisognava procedere e come la Ribellione avrebbe vinto la guerra. Ves scosse il capo.
«Non è Vader che mi ha portato via mio figlio. E in ogni caso, credo sappiamo tutti che sarebbe un suicidio sfidarlo.»
Bonnie ridacchiò, addentando un altro tozzo di pane.
«Già. Ho sentito che è il Jedi più potente che sia mai esistito.»
«Sith.»
Entrambe si girarono: alle loro spalle sopraggiunse Jed con una scodella di zuppa in mano. Si accomodò accanto a loro sulla cassa.
«Non è un Jedi.»
«Cosa sono i Sith?» chiese Ves; sua madre non gliene ha mai parlato. Eppure non perdeva occasione per sbrodolare dei Jedi e delle loro battaglie per la difesa della pace e altre baggianate simili.
«Jedi corrotti, per lo più. Una vecchia setta che si pensava estinta. Ma a quanto pare, sono tornati.» rispose Jed, masticando l’ultimo tozzo di pane offerto da Bonnie.
«E usano anche loro la Forza. Sono più potenti dei Jedi, quindi?»
Jed fece una smorfia di sufficienza. Bonnie e Ves si guardarono, dubbiose.
«Direi di sì, visto che li hanno sconfitti.» osservò Bonnie.
«Decimati vorrai dire.» rimarcò Jed.
Bonnie gli diede una gomitata ed entrambi guardarono Ves.
«Scusa Ves, mi è sfuggito.» si giustificò Jed.
«Non preoccuparti. Quello che hai detto è vero.»
«Sono proprio del tutto scomparsi? Nessuno è sopravvissuto?» fece Bonnie.
«Qualcuno è sopravvissuto. Sono fuggiti, si sono nascosti. Come i codardi che sono.» sibilò Ves tra i denti.
«Sapete, mi sono sempre chiesta: Skywalker quindi è morto? L’ha fatto fuori Vader forse?»
«Può essere, magari in un duello epico, chi lo sa? Non era forse il Promesso della Forza o qualcosa del genere?»
«Bonnie, smettila di citare a caso cose che non conosci. Era il Prescelto della Forza, non il Promesso. E non credo sia morto.»
«È corso a nascondersi come tutti gli altri.» mormorò Ves.
«Già. Lasciandoci soli contro l’Impero.»
«Sapete, a volte penso che se loro sono scappati, se loro hanno avuto paura, cosa possiamo fare noi? Voglio dire: io sono un meccanico; tu Jed sei cosa, un architetto? E tu Ves, cosa facevi prima di unirti alla nostra causa disperata?»
Ves sbuffò.
«Ero all’Accademia, studiavo per diventare colonnello. Mi hanno sbattuto fuori per insubordinazione dopo un anno. Ho passato qualche anno facendo lavoretti qua e là, per tirare su qualche soldo. Niente di che.»
Bonnie e Jed ridacchiarono.
«Allora sei l’unica ad avere una qualche qualificazione per questo. Sei esattamente dove devi essere, sorella.»
Bonnie le mise una mano sulla spalla.
«Speriamo.» sospirò Ves.


Bonnie la guardava con apprensione. Ves si strinse il fianco ferito.
«Non preoccuparti, riesco a reggere ancora un po’.»
L’amica si sollevò per guardare oltre il piccolo terrapieno.
«Hanno smesso di sparare, forse credono che siamo morte.»
Ves emise una risata liquida, interrotta da una crisi di tosse. La puzza di bruciato le dava la nausea, la ferita aveva iniziato a sanguinare sotto la camicia annerita intorno al foro del fulminatore.
«Fammi dare un’occhiata.» fece Bonnie e, senza aspettare la sua risposta, si chinò a studiare la lesione.
«Non c’è molto sangue.»
Ves scosse la testa.
«Il fulminatore cauterizza la ferita. Anche se fa male il doppio.»
«Come procediamo?» le chiese Bonnie dopo qualche istante di silenzio.
Ves non ne aveva idea. Il comlink era muto, non sentivano voci o rumori. Non c’era modo di capire se nelle altre trincee improvvisate i loro compagni fossero ancora vivi. Il loro nemico pure taceva.
«Siamo sole, direi. Potremmo stare qui e attendere rinforzi, che potrebbero non arrivare mai. Oppure aspettare che ci catturino, cosa che non credo accadrà.»
Vide la tristezza calare nello sguardo di Bonnie. Sorrise.
«La guarnigione è andata. L’avamposto è distrutto. Non rimane molto altro. Non hanno alcun bisogno di fare prigionieri.»
Bonnie abbassò lo sguardo e si morse il labbro.
Ves la lasciò sola con i suoi pensieri, chiuse gli occhi e cercò di pensare ad altro che non fosse il dolore.
La ferita era nell’addome, appena sotto il fegato. Non stava in effetti perdendo tanto sangue, forse sarebbe sopravvissuta. Non si sentiva nemmeno debole, solo stanca. E le bruciava la gola: tutto quel fumo intorno a loro le entrava nei polmoni a ogni respiro stentato. Respirare le faceva male. Stranamente il dolore era nella schiena e non dove era stata colpita. Allungò un braccio dietro di sé, tra la camicia lacera e la parete di roccia dietro cui si erano riparate; quando ritrasse la mano, era sporca di sangue. Tanto sangue.
Bonnie notò quello che stava facendo e, senza dire nulla, la fece girare. Si sentì lacerare. L’amica spostò lembi di camicia fradici, le tastò la schiena. Toccò un piccolo oggetto che le si era conficcato tra le costole e quasi svenne per il dolore. Fu assalita da violenti colpi di tosse. Si portò un braccio davanti alla bocca e quando lo guardò era macchiato di sangue.
Bonnie tornò a guardarla bianca in volto. Non c’era bisogno che dicesse nulla.
«Non tentare di toglierlo. In ogni caso, non cambierebbe molto le cose.» altri colpi di tosse, più deboli.
Bonnie era una maschera di orrore.
Chiuse di nuovo gli occhi e forse si addormentò. La voce di Bonnie le arrivò come attraverso un sogno.
«Non voglio farmi catturare.»
Aprì gli occhi e guardò la ragazza. Aveva trentatré anni, dieci meno di lei.
«Cosa facevi prima di entrare nella Ribellione?»
Bonnie parve confusa. La fissò a lungo prima di rispondere.
«Lavoravo in una rimessa su Derra IV. Il garage era di mio padre, ci lavoravo con lui e mio fratello.»
«Tua madre?»
«Ah, lei non amava sporcarsi le mani se non era in cucina! Non le piaceva mescolare le due cose.»
«Aveva ragione.»
«Non ero sposata o fidanzata.»
«Forse è meglio così. È difficile combattere quando potresti perdere qualcuno.»
«Quando un bombardamento ha raso al suolo il mio quartiere, ho deciso di unirmi alla Ribellione.»
«La tua famiglia?»
Bonnie scosse la testa.
«Li ho seppelliti prima di partire.»
Ves rimase in silenzio. Faceva fatica a parlare ora, faceva fatica a tenere gli occhi aperti. Il silenzio intorno a loro era assordante.
Quasi non riconobbe il suono della propria voce quando parlò.
«Il mio piccolo Goran era un apprendista Jedi. Era al tempio quando ci fu l’attacco. Ho lasciato Coruscant poche settimane dopo. Non ho più rivisto mia madre.»
«Mi spiace.»
«Anche a me. Forse se non lo avessi consegnato ai Jedi ora sarebbe ancora vivo. E forse io non sarei qui. Sarei fuggita con lui, lontano dall’Impero.»
«E tua madre?»
Ves provò a ridere, ma fu presa da violenti colpi di tosse.
«Lei sarebbe rimasta a Coruscant. Credo sia ancora là, non c’è nulla di più importante per lei del suo posto in Senato.»
Ci fu uno scoppio e il terrapieno fu scosso da una vibrazione violenta. Furono investite da alcuni sassolini e piccoli massi che si staccavano sopra di loro.
«Bombardano. Vogliono essere sicuri che non ci siano sopravvissuti prima di scendere.»
Ci furono altri due scoppi e altrettanti scossoni. Un grosso masso rotolò sopra di loro, dovettero spostarsi più indietro, a ridosso di un ammasso di detriti.
«Non resisteremo a lungo.» osservò Bonnie, asciutta.
Sentirono voci concitate oltre la coltre di fumo davanti a loro. Difficilmente erano membri della Ribellione.
Si guardarono. Bonnie era terribilmente seria, le labbra due sottili linee bianche sul viso appena visibile sotto strati di terra e polvere.
Ves imbracciò il suo fulminatore, sollevandosi sulle ginocchia, pronta a scattare.
Fece un cenno a Bonnie che annuì, mettendosi anche lei in posizione.
Chiamando a raccolta le ultime energie che le rimanevano, Ves si lanciò in campo aperto, seguita da Bonnie, urlavano e sparavano senza vedere nulla davanti a loro.
Qualcosa la colpì, inciampò, forse cadde. Non ricordava. Non ce ne fu il tempo.


«Mon, mia cara, come sono felice che tu sia qui!»
La voce di Regina era debole e tremante. Mon era sulla porta, a tre metri dal letto in cui Regina riposava. Quando si sentì nominare, entrò nella stanza e si avvicinò alla donna.
«Riesci sempre a capire quando sono io, vero?»
«È il tuo profumo, cara: sai di democrazia.» disse l’anziana, sorridendo. In tutti quegli anni era diventata come una figlia per lei, rimasta sola dopo la morte del nipote e la fuga di Solaves.
«Ti sento impaziente, Mon. Devi dirmi qualcosa?»
«Da dove cominciare?»
La voce di Mon tradiva eccitazione. Regina non ricordava nemmeno più quando aveva sentito Mon eccitarsi, forse quando era una ragazzina su Chandrila.
«Buone notizie, spero.»
«Eccellenti direi.»
«Smettila di girarci intorno e vieni al punto, cara.»
Le prese la mano tra le sue, nodose e fredde. Mon gliele strinse a sua volta.
«Palpatine è morto.» disse Mon, con un sospiro solenne.
Regina abbandonò la stretta di Mon portandosi le mani al volto. Mon si allarmò, pensando che l’anziana donna fosse sul punto di sentirsi male. Poi Regina abbassò le mani e Mon vide che stava piangendo: lacrime scendevano dagli occhi vitrei, inondando le guance rugose e cadenti, lasciando grossi aloni bagnati sulle lenzuola bianche.
«Oh, cara!» disse, ma la commozione le spezzò la voce e continuò solo a piangere e asciugarsi gli occhi per diversi secondi. Quando si fu calmata, si schiarì la voce e continuò.
«Vorrei tanto che Bail fosse qui.» rimase pensierosa ancora per un po’. Poi, aggiunse come se si fosse ricordata di una cosa importante:
«Leia sta bene?»
Mon annuì, prima di accorgersi del gesto e rispondere a voce.
«Sì, sta bene. Stanno tutti bene.»
«Bene, bene.» borbottò Regina, sorridendo.
La giovane Leia, la piccola peste che correva nel palazzo reale di Alderaan. La giovane senatrice, la giovane leader dei Ribelli. Oh Bail, saresti così orgoglioso di lei!
Sentiva che stava per rimettersi a piangere.
«E dimmi, cosa è successo?»
Mon cercò di ricordare quando aveva fatto visita a Regina l’ultima volta, ormai diversi mesi prima. Riprese a raccontare da quel giorno, il salvataggio del Generale Solo, la scoperta che l’Impero stava costruendo una nuova Morte Nera, la missione su Endor e la battaglia finale.
Regina ascoltava attenta e in silenzio.
«Ovviamente non è ancora finita: cellule simpatizzanti dell’Impero rimangono ancora attive in diversi sistemi nella Galassia. Inoltre, dobbiamo ricomporre un nuovo Senato e ricostruire la Repubblica.»
Regina era pensierosa, Mon si interruppe bruscamente.
«Che c’è cara?»
«Non mi sembri convinta.»
La donna sorrise.
«Non credo che ricostruire sia la parola adatta qui, Mon.»
«Ma allora cosa dovremmo fare?»
«La Vecchia Repubblica ha chiaramente fallito: avevamo l’aiuto dei Jedi e pensavamo di essere inattaccabili. E guarda cosa è successo. La corruzione e l’avidità ci hanno corrosi dall’interno, riuscendo a corrompere i più leali e puri tra noi.»
Se stava parlando di Skywalker non lo diede a intendere. Mon sapeva che Regina poteva aver perso la vista, ma di certo gli altri sensi le funzionavano ancora bene, compresa la materia grigia che aveva tra le orecchie.
«La Repubblica va ripensata. Riprendi gli elementi validi e che funzionano e scarta il resto. Lascia Coruscant: questo pianeta è ormai un vecchio monumento fatiscente, troppo complicato, troppo contorto. Non dobbiamo rimanere ancorati al passato, non dobbiamo glorificarlo: il tempo che passa ha il potere di farci dimenticare i difetti e ricordare solo le cose belle. Ma la Vecchia Repubblica era lungi dall’essere perfetta.»
Sorrise e le prese di nuovo le mani tra le sue.
«Hai ancora tante cose meravigliose da fare, amica mia. Immagina come vorresti che fosse la Repubblica e costruiscila esattamente così. Hai questo potere immenso, di ispirare e guidare le persone. Hai costruito dal nulla un’Alleanza forte, hai sconfitto un Impero che tutti pensavano indistruttibile. Hai ucciso l’uomo che tutto pensavano fosse eterno. La gente ti seguirà, seguirà la tua visione. Tu porti speranza, Mon.»
Mon taceva. Non solo perché non sapeva cosa dire, ma perché sentiva qualcosa nelle parole di Regina, un messaggio che forse la vecchia senatrice non voleva dire a voce alta.
«Farò quello che posso, Regina. Con il tuo aiuto.»
Regina rise e tossì.
«Non hai più bisogno di me. Non ne hai mai avuto, in realtà. Anzi, credo che da qualche tempo sia vero il contrario!» concluse, allargando le braccia a sottolineare l’evidenza della sua situazione.
«Cos’è che non mi stai dicendo?»
Il volto di Regina, stanco e vecchio, sembrava ancora più debole.
«Dammi una mano. Avvicinami la sedia a propulsione che vedi là e aiutami a scendere da questo letto.»
Dopo qualche manovra, Regina era seduta sulla sedia e diede istruzioni a Mon di condurla sul terrazzo.
Il traffico era notevolmente calato nel corso degli anni e anche l’aria era diventata più respirabile, gli unici effetti positivi della tirannia di Palpatine.
Regina sorrise nel calore del sole al tramonto, respirò l’aria che non ricordava così fresca, la leggera brezza le scompigliò i sottili capelli bianchi.
«Solaves e io eravamo proprio qui l’ultima volta che ci parlammo. Fu anche l’ultima volta che la vidi.»
«Di cosa avete parlato?»
«Di cose poco importanti: io volevo che lei riprendesse gli studi. Lei voleva andarsene. Abbiamo litigato, come al solito. Come due stupide. Se avessi saputo che era l’ultima volta che ci saremmo viste, avrei parlato d’altro.»
«Cosa avresti voluto dirle?»
Regina sospirò, ripensando alla frase che la figlia le aveva detto prima di sparire. “Non sono più una ragazzina, non sono più una studentessa. Non sono più nemmeno una madre. Non so più chi sono!”. Aveva urlato e poi era scappata via, per non farsi vedere fragile davanti a lei.
«Avrei voluto chiederle scusa: avrei voluto, no, avrei dovuto dirle che non era colpa sua, nulla di tutto quello che era successo era colpa sua. Non avrei dovuto coinvolgere i Jedi, non avrei dovuto costringerla ad abbandonare suo figlio. Avrei dovuto starle accanto, aiutarla a crescere Goran. Saremmo state felici.»
3D1 arrivò sferragliando dalla cucina portando un paio di bicchieri e una caraffa di tè freddo.
«Grazie, 3D1.» disse Regina.
«Cara, passami un bicchiere bello pieno: muoio di sete!»
Si dissetarono entrambe.
«Non hai più provato a contattarla?»
«In questa Galassia, con una guerra in corso, è facile far perdere le proprie tracce. Ho provato, per una decina d’anni. Poi di nuovo, dopo la battaglia di Yavin. Cercai di informarmi se per caso si fosse unita alla fanteria o qualche altro reparto. Fu un buco nell’acqua.»
«Tornerà, vedrai. Ora che l’Impero è caduto, la rivedrai.»
«Forse.»
Rimasero in silenzio qualche secondo, ascoltando il rumore lontano del traffico serale della città sotto di loro.
«Sono stata una pessima madre e una senatrice mediocre.»
«Sai che non è vero. Ci hai ispirati, ci hai tenuti insieme quando eravamo scoraggiati. Senza di te non avremmo ottenuto nulla, nessuna delle nostre vittorie sull’Impero.»
«Sì, ma a che prezzo! Janov non c’è più, Solaves non c’è più, Bail non c’è più, Breha non c’è più. Il mio piccolo Goran … Io sono qui, vecchia e inutile, mentre le persone che amo se ne sono andate tutte. Ed è come se le avessi uccise io. Per tutta la vita ho pensato di essere la più saggia, di sapere cosa fosse meglio per gli altri. Ho distrutto tutto. È tutto collegato a me, alla mia presunzione, il mio maledetto orgoglio.»
Mon si inginocchiò accanto alla sedia e le prese le mani che tremavano.
«Oh, non tu cara, tu sei ancora qui. Forse perché a te non ho mai detto cosa fare. Oppure, saggiamente, non mi hai mai ascoltato.»
Le posò una mano sui capelli.
Mon aveva gli occhi pieni di lacrime, ma la voce era ferma.
«I tuoi consigli sono sempre stati preziosi per me. Te ne sono grata.»
Regina sorrise, qualche altra lacrima le scese sul viso che Mon asciugò con un fazzoletto. Poi qualcosa cambiò e Regina fece una smorfia.
«Cosa c’è? Hai freddo? Vuoi rientrare?»
«Sì, grazie, cara. La temperatura sta calando in fretta.»
Ritornarono nella camera da letto, questa volta aiutate da 3D1 per rimettere Regina a letto.
«Riposati. Vengo a trovarti fra qualche giorno, prima di partire per Chandrila.»
«Sono sicura che sarai un ottimo Cancelliere della Nuova Repubblica.»
Si salutarono e quella fu l’ultima volta che parlarono. Regina si spense quella notte, in pace, sognando di giocare con suo nipote.


Torna alla home